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(In)utilità di Kyoto2. Mutamenti climatici e giustizia sociale

Creato il 11 febbraio 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Serena Pisanelli

Doah (Qatar) - 18^ Conferenza dell’ONU sul clima - 8 dicembre 2012

Doah (Qatar) – 18^ Conferenza dell’ONU sul clima – 8 dicembre 2012

L’8 dicembre scorso si è conclusa a Doha (Qatar) la 18^ Conferenza dell’ONU sul clima. I giornali ne hanno parlato per annunciare la “salvezza” del Protocollo di Kyoto, rinnovato fino al 2020. Sembrerebbe una buona notizia, se non fosse che questo strumento di tutela dell’ambiente lascia a desiderare sin dai tempi della sua ideazione.

Sottoscritto l’11 dicembre 1997, esso si proponeva di ridurre entro il 2012 le emissioni inquinanti in misura pari al 5,2% rispetto ai livelli raggiunti nel 1990 dai paesi industrializzati e da quelli in via di sviluppo. Al contrario, secondo i dati dell’ultimo Report del Global Carbon Project, le emissioni di anidride carbonica provocate dall’uso di combustibili fossili sono aumentate del 3% nel 2011, registrando il più alto dato nella storia umana e crescendo del 54% rispetto al 1990, e ancora del 2,6% nel 2012.

Entrato in vigore solo il 16 febbraio 2005, in colpevole ritardo soprattutto per il rifiuto di ratifica da parte della prima amministrazione statunitense di George W. Bush[1], il Protocollo continua a caratterizzarsi per la mancata adesione di alcuni tra i paesi maggiormente responsabili delle emissioni di gas serra. Il governo statunitense dell’epoca annunciò che non avrebbe sottoposto l’accordo alla ratifica del Senato finché non si fosse ottenuta una «significativa partecipazione» dei paesi-chiave del Terzo Mondo al Protocollo. Dall’altro lato, quelli che all’epoca erano i paesi emergenti (oggi non possono più definirsi tali, per esempio, Cina e India) rifiutarono di assoggettarsi alle restrizioni previste finché queste avessero frenato – anche con il sistema perverso di compravendita delle quote di emissione – la possibilità di partecipare all’economia globale e al commercio internazionale con diritti pari a quelli dei paesi di vecchia industrializzazione. Dopo una storia segnata prima dal colonialismo e poi dallo scambio ineguale di risorse naturali attraverso il commercio internazionale, è tempo di perseguire l’obiettivo di una maggiore giustizia sociale, coniugandola con una maggiore attenzione per il pianeta.

Come sottolineato dal Report UNDP 2011[2], nei paesi in via di sviluppo, le persone svantaggiate sono più vulnerabili agli effetti del degrado ambientale (pur essendone responsabili in misura minore), anche a causa della mancata disponibilità di strumenti adeguati per farvi fronte.

Per esplicitare quanto appena detto, si accenna di seguito a qualche esempio:

-   la deforestazione colpisce in misura maggiore America Latina, Africa sub-sahariana e Caraibi;

-   la desertificazione minaccia terre in cui risiede 1/3 della popolazione mondiale (spesso costringendo all’emigrazione);

-   i fattori ambientali possono provocare l’innalzamento dei prezzi dei beni alimentari fino al 30-50% con conseguenze negative per 1,3 miliardi di persone che vivono ancora di agricoltura, pesca, silvicoltura, caccia e raccolta, e alle quali si chiede uno sforzo maggiore in termini di lavoro per ottenere gli stessi ritorni;

-   i bambini e le donne, resi più deboli dalla malnutrizione, sopportano con maggiore difficoltà cattive condizioni ambientali.

Ciò vale anche «in democratic systems» in cui «the people most adversely affected by environmental degradation are often the worst off and least empowered»[3]. Una soluzione auspicabile, allora, è un processo di empowerment che faccia procedere di pari passo la salvaguardia dell’ambiente con l’equità sociale.

Ebbene, l’applicazione del Protocollo di Kyoto riflette questo proposito? Cosa si può sperare di ottenere da un suo mero rinnovo, soprattutto in considerazione del fatto che ai non firmatari Usa, Cina e India si sono aggiunti Canada, Russia, Giappone e Nuova Zelanda, anch’essi sottrattisi all’accordo che pure avevano ratificato nel 1997?

Di fatto, manca un governo globale che si occupi a livello internazionale delle questioni intrecciate del cambiamento climatico e della giustizia sociale; si cerca di sopperire a una tale carenza affidandosi a raccomandazioni sul comportamento individuale. Spesso si invoca un cambiamento di stile di vita del singolo (per esempio nei consumi) come primo passo per cambiare il mondo in favore di questi obiettivi. Indubbiamente si tratta di un elemento utile che può introdurre mutamenti significativi a livello culturale, ma – citando Wolfgang Sachs (sociologo noto per il suo impegno ambientalista al Wuppertal Institute) – «i cambiamenti su larga scala non esistono senza politica».


[1] Per la cronaca, nemmeno l’arrivo di Obama alla Casa Bianca, e la sua riconferma per altri 4 anni, ha sollecitato una responsabile partecipazione degli Stati Uniti d’America al Protocollo.

[2] UNDP, Human Development Report 2011. Sustainability and equity: a better future for all, United Nations Development Programme, New York, 2011.

[3] Ivi, p. 8.

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