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Inviate speciali: “Tatoueurs, tatoués” – Quai Branly – Cristina Balma-Tivola

Creato il 06 dicembre 2014 da Wsf

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Dal 6 maggio 2014 al 18 ottobre 2015 il museo parigino del Quai Branly ospita la mostra “Tatoueurs, tatoués” che presenta – nelle parole degli stessi curatori Anne e Julien, fondatori del gruppo/rivista Hey! Modern art & pop culture – una panoramica di ragioni, significati e modalità dell’atto di tatuarsi nel mondo contemporaneo, e spiega il modo in cui il tatuaggio, dall’antichità ai giorni nostri, non ha mai smesso di mutare, scomparire, rinascere in funzione di istanze collettive o individuali sino a divenire una moda cui conformarsi o, al contrario, un segno distintivo dell’identità di una persona.

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Parlando in termini molto generali, infatti, sino nel secolo scorso tale pratica aveva in Oriente, Africa e Oceania un significato di ordine sociale, mistico o religioso, e accompagnava spesso l’individuo nel riconoscimento di un certo status all’interno della comunità, mentre in Occidente il tatuarsi era visto come marchio di infamia o di criminalità, oppure ancora come attrazione da circo. Durante il XX secolo, però, assistiamo a un cambiamento sostanziale nel mondo europeo e nordamericano, per cui tale pratica all’inizio esce da circuiti marginali per divenire sempre più frequente anche nei diversi contesti urbani senza più marchiare l’individuo come un ‘deviante dalla norma’, quindi viene rilanciata dai media globali come di volta in volta segno di identità individuale, moda o, ultimamente, anche puro ornamento.

Malle de tatoueur itinérant, XX° siècle
Malle de tatoueur itinérant, XX° siècle

 

Accanto a trattare l’argomento in questi termini – ben distanti da una mostra etnografica sul tema che al contrario ne approfondirebbe i significati nelle diverse culture umane in relazione alle diverse componenti e visioni del mondo di una società – la mostra enfatizza la natura artistica di tale pratica, gli scambi di competenze tra tatuatori nel mondo e l’attuale emergere di stili sincretici, e questo situarsi dell’allestimento tra la volontà documentaria e quella estetica viene reso in modo efficace dal mescolare nella massima libertà artefatti culturali custoditi nel museo così come bozzetti, fotografie, e sculture realizzate ad hoc da professionisti contemporanei di quest’arte.

L’esposizione si apre con un video nel quale scorrono stralci da interviste per strada a persone tatuate, e una mappa che situa le diverse testimonianze attualmente in nostro possesso sulla pratica del tatuarsi nelle diverse aree del mondo dall’antichità ai giorni nostri. Di qui l’articolazione in cinque sezioni, la prima delle quali tratta l’argomento in termini di costante dell’umanità declinata però in scopi di volta in volta diversi – dalla sua concezione in termini terapeutici a quella di segno d’appartenenza a un gruppo, da quella di marchio d’infamia a quella d’attrazione da circo.
Qui troviamo materiali interessanti, quali un manuale manoscritto del Myanmar del XIX secolo in cui sono riportati tatuaggi e credenze magico-religiose loro associate e che era di fatto il blocco di appunti – destinato alla distruzione nel momento in cui fosse anch’egli divenuto un professionista, dell’allievo di un maestro dell’arte. Ma sono anche raccolte numerose immagini di donne tatuate, spesso per identificarle come prostitute (come nel caso delle armene, già scampate al genocidio, ma non alla schiavitù, negli anni ’20 in Siria) o per loro stessa scelta di divenire attrazioni da circo (come nel caso di Anna Artoria Gibbons).

Anna
Anna “Artoria” Gibbons, 1920

 

Una seconda sezione illustra le radici della pratica in Giappone – dove inizialmente viene usata per ragioni punitive, poi militari, quindi raggiunge l’apice nella funzione ornamentale in concomitanza con il periodo di massimo successo degli ukiyo-e, cui il tratto e i soggetti sono legati – in Nord America – dove si riscontra sporadicamente in alcune popolazioni native, ma soprattutto dove a metà dell”800 comincia a diffondersi nel contesto urbano (e qui possiamo vedere una riproduzione dello stesso brevetto del 1981 con cui Samuel O’Reilly registrò la prima macchina elettrica per il tatuaggio) – e infine in Europa – dove si sviluppa a partire dal XIX secolo e dove nel 1936 Jessie Knight, che si auto-pubblicizza come la prima e migliore artista dell’epoca nel lavoro a mano libera, apre il suo negozio che ha come clienti donne di diversa estrazione sociale, qui fotografate mentre urlano o sorridono durante l’esecuzione del tatuaggio.

Brevet°464801déposé par Samuel O'Reilly, 1891
Brevet°464801déposé par Samuel O’Reilly, 1891

Una terza sezione racconta della rinascita del tatuaggio in quelle società in cui esso è (stato) centrale in relazione a riti di passaggio e di status all’interno di una comunità – Nuova Zelanda, Samoa, Polinesia, Borneo, Indonesia, Filippine, Thailandia – verificando i modi in cui il contatto con il mondo occidentale ha portato all’emergere di ‘scuole’, ‘professionisti’ e significati talvolta in accordo (come nel caso del businessman neozelandese vestito in modo impeccabilmente occidentale, ma col volto ricoperto interamente da un disegno della propria cultura), altre volte in disaccordo con le ragioni tradizionali, mentre una quarta sezione affronta l’area cinese, in cui la pratica sta parimenti riemergendo, e il contesto latino e chicano, dove il tatuaggio si ispira all’iconografia americano-messicana che annovera il pantheon cristiano e immagini funerarie.

La dernière femme kalinga tatouée, 2011
La dernière femme kalinga tatouée, 2011

 

Supatik Tisarano, 2008-2011
Supatik Tisarano, 2008-2011

Una quinta sezione, infine, affronta la questione dei nuovi stili ornamentali attraverso le immagini di otto fotografi specializzati sul tema e la proiezione di un video che illustra le tendenze sociali e le mode recenti che investono tale pratica. Quest’ultima proposta riprende e chiude tra l’altro la parallela esposizione di 13 progetti immaginari, da parte di altrettanti attuali tatuatori, su braccia, gambe e torsi in silicone, e di 19 tele dipinte con soggetti per tatuaggi da altrettanti professionisti di quest’arte.
Meramente estetica e spettacolare, paradossalmente sembra essere quella meno efficace, a giudicare dalla noia con cui viene distrattamente percorsa dai visitatori – per tacer della sottoscritta. La quale – antropologa critica, scettica e un po’ perplessa sino all’ultimo – riconosce però a “Tatoueurs, tatoués” l’indubbio pregio di trattare l’argomento senza quella morbosità che spesso accompagna i discorsi sul corpo e sulle scelte individuali sulle sue modificazioni permanenti, e di mettere in scena la presenza femminile al pari di quella maschile.
Non poco se mettiamo in relazione le parole “modificazioni del corpo” e “donne” nella nostra mente e vediamo cosa vi scaturisce, non trovate?

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articolo e fotografie di Cristina Balma-Tivola


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