E' un peccato che la cinematografia del nostro paese non sia stata in grado di dare a "Il resto di Niente" di Antonietta De Lillo ciò che realmente merita. Perchè, senza eccessi di zelo (anche perchè ho visto la pellicola due volte e la seconda impressione è stata addirittura superiore alla prima), considero il film ispirato alla storia della Repubblica Napoletana del 1799, vista e "attraversata" (ed è un termine perfetto per descrivere le sequenze in cui la protagonista procede verso di noi e, in qualche caso, sembra guardarci dirimpetto con aria confidenziale) da Eleonora Pimentel Fonseca, interpretata da una intensa e commovente Maria de Medeiros, uno dei più accorati esempi di cinema "storico" nella sua accezione meno banale, più ancorata ad un linguaggio insieme tradizionale e obiettivo, ma anche a modo suo militante, sensibile. Ecco il termine giusto per descrivere "Il resto di niente" è "sensibilità". Una forma di sensibilità femminile, tesa all'argomentazione, che non perde di vista mai una precisa conoscenza storica, anche se non può farne nè un'apologia da attualizzare ne indugiare nel particolare. E' anche una "sensibile" ricostruzione scenografica, in cui la perizia visiva è accompagnata da una grande armonia e cura del dettaglio, del costume, del decor. Tutto senza grandi spese, ma con grande conoscenza. L'altra parola chiave per definire "Il resto di Niente" è , appunto, "conoscenza". Spesso associato ad una concezione erudita (non ho mai sopportato la definizione di cinema "colto"), in realtà è un film profondamente popolare, vernacolare, ricco di elementi della Napoli tradizionale, senza bozzetti, ma con uno sguardo che è anche voltato altrove, verso i grandi "ideali", i grandi "miti", le Rivoluzioni. E la conoscenza è anche, appunto, capacità di dare vigore narrativo ad un ideale, ad un pensiero, ad una filosofia, come quella di Cuoco, come quella che arde nei cuori di chi ha fatto parte dell'esperienza. Per leggere la nostra Italia e la nostra storia, una visione in tandem di "Il resto di Niente" e di "Noi Credeamo" di Martone potrebbe essere salutare. D'altronde nella Rivoluzione Napoletana e nel Risorgimento si pongono tracce di un'Italia ancora oggi viva, che preferisce coltivare le primizie del proprio orto per soddisfare i bisogni primari, piuttosto che aprirsi alla politica della democrazia, soprattutto se non è una vera democrazia. Considerando questi due film, con una reazione popolare addirittura contraria in entrambi i casi ai fautori del popolo, e calcolando anche l'esperienza fascista, la nostra Italia è figlia di quella mentalità, tesa all'utile e non all'ideale, al bisogno individuale piuttosto che a quello collettivo. Quella stessa Italia che rifugge il pensiero e, ad ogni livello culturale, si maschera dietro il proprio tornaconto. Quell'Italia che ci è stata insegnata, dai pregiudizi, dalla culla, priva di criteri morali e tesa alla zuffa continua. Ma cosa rimane delle nostre vite, dei nostri pensieri, dei nostri sogni? "Il resto di Niente".
E' un peccato che la cinematografia del nostro paese non sia stata in grado di dare a "Il resto di Niente" di Antonietta De Lillo ciò che realmente merita. Perchè, senza eccessi di zelo (anche perchè ho visto la pellicola due volte e la seconda impressione è stata addirittura superiore alla prima), considero il film ispirato alla storia della Repubblica Napoletana del 1799, vista e "attraversata" (ed è un termine perfetto per descrivere le sequenze in cui la protagonista procede verso di noi e, in qualche caso, sembra guardarci dirimpetto con aria confidenziale) da Eleonora Pimentel Fonseca, interpretata da una intensa e commovente Maria de Medeiros, uno dei più accorati esempi di cinema "storico" nella sua accezione meno banale, più ancorata ad un linguaggio insieme tradizionale e obiettivo, ma anche a modo suo militante, sensibile. Ecco il termine giusto per descrivere "Il resto di niente" è "sensibilità". Una forma di sensibilità femminile, tesa all'argomentazione, che non perde di vista mai una precisa conoscenza storica, anche se non può farne nè un'apologia da attualizzare ne indugiare nel particolare. E' anche una "sensibile" ricostruzione scenografica, in cui la perizia visiva è accompagnata da una grande armonia e cura del dettaglio, del costume, del decor. Tutto senza grandi spese, ma con grande conoscenza. L'altra parola chiave per definire "Il resto di Niente" è , appunto, "conoscenza". Spesso associato ad una concezione erudita (non ho mai sopportato la definizione di cinema "colto"), in realtà è un film profondamente popolare, vernacolare, ricco di elementi della Napoli tradizionale, senza bozzetti, ma con uno sguardo che è anche voltato altrove, verso i grandi "ideali", i grandi "miti", le Rivoluzioni. E la conoscenza è anche, appunto, capacità di dare vigore narrativo ad un ideale, ad un pensiero, ad una filosofia, come quella di Cuoco, come quella che arde nei cuori di chi ha fatto parte dell'esperienza. Per leggere la nostra Italia e la nostra storia, una visione in tandem di "Il resto di Niente" e di "Noi Credeamo" di Martone potrebbe essere salutare. D'altronde nella Rivoluzione Napoletana e nel Risorgimento si pongono tracce di un'Italia ancora oggi viva, che preferisce coltivare le primizie del proprio orto per soddisfare i bisogni primari, piuttosto che aprirsi alla politica della democrazia, soprattutto se non è una vera democrazia. Considerando questi due film, con una reazione popolare addirittura contraria in entrambi i casi ai fautori del popolo, e calcolando anche l'esperienza fascista, la nostra Italia è figlia di quella mentalità, tesa all'utile e non all'ideale, al bisogno individuale piuttosto che a quello collettivo. Quella stessa Italia che rifugge il pensiero e, ad ogni livello culturale, si maschera dietro il proprio tornaconto. Quell'Italia che ci è stata insegnata, dai pregiudizi, dalla culla, priva di criteri morali e tesa alla zuffa continua. Ma cosa rimane delle nostre vite, dei nostri pensieri, dei nostri sogni? "Il resto di Niente".
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