The keeping room
di Daniel Barber.
con Britt Marling, Hailee Steinfield, Sam Worthington,
Usa, 2014
genere, western
durata, 95'
"Più la guerra sarà crudele, più sarà breve". Tale lapide scolpita/attribuita a W.T.Sherman, il conquistatore di Atlanta nella marcia verso il mare,
circoscrive con feroce approssimazione i confini psicologici - a modo
loro, austeri e terribili - di un'opera dolente come "The keeping room".
1865, Stati Uniti meridionali. La Guerra Civile è agli sgoccioli. Un
lustro scarso è bastato per accatastare sui campi, nelle retrovie, nelle
smisurate pianure, migliaia tra cadaveri, mutilati, dispersi, riottosi e
sbandati di ogni risma. Territori interi stravolti dal passaggio di
eserciti in grado di avvalersi delle disponibilità materiali messe a
disposizione da un apparato produttivo già nella sua adolescenza
industriale. Innumerevoli famiglie lacerate dalle separazioni forzate e
dalla prospettiva di lutti inevitabili. Giovinezze troncate di netto sul
limite di epifanie che rimaranno inesplorate o, peggio, irraggiungibili
chimere...
Nella desolazione di una terra che, all'interno delle
sue non poche contraddizioni, custodiva un grumo d'innegabile
meraviglia (canta il John Brown's body: "The South... The
honeysuckle... The hot sun.../The taste of ripe persimmons and
sugar-cane.../The cloyed and waxy sweetness of magnolias...White cotton,
blowing like a fallen cloud..."//"Il Sud... Il caprifoglio... Il
caldo sole.../Il gusto del loto maturo e della canna da zucchero.../La
pesante e cerea dolcezza delle magnolie/Cotone candido, turgido come una
nube caduta..."), sopravvive, ai margini di un conflitto le cui
propaggini incombono sempre più d'appresso, l'ostinazione matrilineare
di tre giovani donne, gruppo familiare asimmetrico e residuale -
Augusta/B.Marling, sorella maggiore e novella mater;
Louise/H.Steinfeld, sorella minore e Mad/M.Otaru, ex schiava: "Siamo
tutti negri, ormai", apostrofa Augusta alla sorella recalcitrante al
dissodamento dei pochi scampoli di proprietà, ancora di pertinenza, a
suo dire, delle esclusive fatiche di Mad - pian piano ritornato, visto
l'isolamento, l'angoscia crescente dei giorni, la mancanza dell'elemento
maschile impegnato su chissà quale fronte, al passo di una resilienza
ancestrale circadianamente ritmata;
ai limiti dell'indigenza ma ferrea
nella sotterranea determinazione a durare; parca nei gesti e pressochè
sgombra di parole: silenziosa e inquieta sullo sfondo impassibile e
monumentale di una Natura (alberi immensi da cui far penzolare,
dispettosa, un'altalena; fitti boschi che s'ammantano di luce bluastra
dopo il tramonto; sentieri nascosti da intrichi di vegetazione
fittissima come se, davvero, non sia mai esistito altro che una sola,
infinita, estate...) che, al solito, nel suo tempo-senza-tempo,
indifferente e placida, trova sempre se stessa, assimilando qualunque
fremito o frenesia che all'accordarsi al suo ciclo presume di non
arrendersi.
Tregue fragili, interludi malickiani (sentori
di "Days of heaven", per dire. Quindi, più Almendros che Lubezki, nel
lavoro cromatico di M.Ruhe. Meglio: più Surtees di "The outlaw Josey
Wales" e disparate suggestioni da W.Homer, dalla ritrattistica di
T.Eakins, dalla ricerca fotografica di M.Brady), destinati ad
infrangersi, comunque, sugli scarti impazziti del conflitto incarnati
dai balordi/disertori Moses/S.Worthington ed Henry/K.Soller, animali
bradi dediti, nel nonsenso di un vagabondaggio senza meta, all'alcool,
all'omicidio, allo stupro. "The keeping room" prende così la via di un
dramma inevitabile e anch'esso archetipico - quello tra Natura (parziale
ritorno allo stato di) e Cultura (in una delle sue espressioni tanto
atroci quanto insopprimibili, ossia la Guerra e la sua cosatellazione di
follie) - in cui Augusta - antifrasi di rara efficacia - sveste mano
mano, letteralmente, i panni di una Venere afflitta e parzialmente
repressa, per indossare quelli di un'Atena indomita che si pone a capo
del suo micro esercito, tetragona nell'intendimento di non arrendersi a
niente e a nessuno e di difendere gli smarriti ma solidali affetti.
Coerentemente, il paesaggio, agreste, floreale, idilliaco nel suo enigma
paziente e irriducibile, lascia il posto al crepuscolo e agl'interni, in cui i volti si fanno freddi, terrei, i respiri concitati e le frasi spezzate; la grande scalinata che conduce al piano nobile
non si schiude più (come, ad esempio e almeno all'inizio, in "The
beguiled" di Siegel) sui ristori dalle ristrettezze quotidiane o sui
temuti/fantasticati unknowm pleasures di un desiderio
perennemente negato ma arretra a baluardo ultimo dell'incolumità prima
dell'irreparabile; evoca, nella spossata tristezza di memorie
inconsolabili, altri luoghi, antri separati, ripostigli, dove si sono
consumati orrori vili e reiterati a cui sovrapporre, come alimentando
una maledizione irredimibile, quelli della ritorsione e della fatalità,
fino alla negazione di sè, fino alla mimesi con un mondo che sa
rispecchiarsi solo nella maschera implacabile di un Generale in armi.
TFK