Avvertenza: questo post è un vero e proprio invito alla lettura!
In forte ritardo, ma finalmente anche io sto leggendo TAXI. Le strade del Cairo si raccontano, dello scrittore, giornalista e regista egiziano Khaled al-Khamissi (traduzione di E. Pagano, ed. Il Sirente, 2008).
Vi ricordate quando eravate bambini ed i vostri genitori, per assenza di altri mezzi di trasporto, vi portavano in viaggio in taxi e a voi il taxi sembrava un mondo nuovo e affascinante? Ecco, i taxi del Cairo sono quanto di più lontano dall’idealtipo del taxi che uno si immaginerebbe: sgangherati, inquinanti, sporchi, disordinati e cigolanti. E gli autisti sono i nuovi veri eroi egiziani: chiacchieroni, divertenti e pieni di umanità. Attraverso le loro parole, non sempre raffinatissime, e le loro opinioni sulla vita politica dell’Egitto di oggi, al-Khamissi ci consegna una piccola e preziosa opera che è un caleidoscopio umanissimo dei nostri vicini di mare, che sono molto spesso più simili agli italiani di quanto si voglia pensare!
58 racconti che sono altrettante finestre spalancate sulla società egiziana di questi ultimi anni, che ci presentano un Egitto vivace, colorato e caciarone che non ha paura di riflettere su sé stesso e di darsi le colpe dei mali che affliggono il popolo egiziano. TAXI è una panoramica genuina e assoluta sugli abitanti del Cairo e sugli egiziani in generale attraverso quelli che sono tra i più sfortunati e disgraziati figli del nostro tempo.
Se non lo avete (ancora) letto, vi cito qualche frase che ho raccolto qui e lì nel testo
In Egitto, l’essere umano è come la polvere in un bicchiere crepato. Il bicchiere si può rompere in un niente, e la polvere vola via. Impossibile raccoglierla, e pure inutile: è solo un po’ di polvere. L’uomo in questo paese è così, un po’ di polvere volante. Non vale niente.
Sono pazzi, mandano i loro figli a scuola. – e perchè dove glieli vuoi far mandare? – quelli, i bambini, vanno a scuola e non imparano niente…e la famiglia si deve far spillare più di dieci anni di doposcuola. Alla fine i genitori si trovano a raschiare il fondo del barile e i figli non troveranno mai un lavoro. Una stronzata dietro l’altra.
E perché secondo te dove viviamo? In una città? La giungla è il paradiso rispetto a dove stiamo noi. Lo sai dove viviamo noi? – Dove? – All’inferno.
Avevo dimenticato di dirgli che il nostro è un continente smembrato, dai collegamenti recisi, colonizzato dall’inizio alla fine, dove l’unico che può continuare a muoversi liberamente non è certo il suo figlio africano, ma è il signore bianco, fabbricatore delle porte d’Africa, che si aprono ubbidienti soltanto al suo comando.
Se paghi, guardi. Per noi ormai è diventato vietato guardare e vedere qualsiasi cosa.
La cosa più importante è cancellare dal vocabolario la parola “americano”. Dobbiamo iniziare a dire “bianco protestante irlandese d’America”, “nero musulmano d’America”, “ispanico d’America” […], esattamente come fanno loro (gli USA) con noi: «Morti sette “sciiti d’Iraq” e due “sunniti d’Iraq”» e quei figli di cane di giornalisti si mettono pure a ripetere le stesse cose.
Onestamente il problema non sta nel Governo. La vera tragedia è l’imbecillità della gente che spreca i suoi soldi in aria e fumo. Se mi facessero prendere le redini di questo paese per un solo giorno…o anche per un solo minuto, l’unica legge che farei sarebbe vietare la pubblicità.
Io, con tutto il cuore, vorrei dire al ministro dell’Informazione che noi siamo cento volte più svegli di lui e capiamo come gira il mondo duecento volte di più…ma dove lo vado a prendere ‘sto ministro per andarci a parlare?
Che ne pensi se gli mando un telegramma?
O forse mi arrestano se glielo mando?
Ma che devo fare se prima questo era il paese nostro? Adesso è diventato il paese loro e ci fanno quello che vogliono. Mentre a noi, lasciateci nei taxi che è meglio!