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Presentato in concorso alla IX edizione del Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione Wired Next Cinema, Io, Arlecchino, pellicola grazie a cui Giorgio Pasotti – coadiuvato da Matteo Bini – esordisce alla regia dopo una consolidata carriera attoriale, uscirà nelle sale italiane il prossimo 11 giugno. Come suggerito fin dal prestigioso sito scelto per la sua presentazione nazionale, il MAXXI – attorno a cui l’opinione pubblica si divide in un incessante quanto disturbante chiacchiericcio –l’opera narra di un’Italia decadente e decaduta, incapace di valorizzare le proprie bellezze, siano esse appartenenti a quella specifica tradizione artistico-culturale che le fa onore; o semplicemente conseguenti alle dinamiche tra padre e figlio. Paolo (Giorgio Pasotti) fascinoso conduttore di uno di quegli squallidi talk show pomeridiani che non faremo certo fatica a immaginare, viene interrotto da una scomoda telefonata che gli comunica che l’anziano genitore (Roberto Herlitzka) è stato ricoverato all’ospedale. Il giovane, totalmente ignaro di tale situazione medica, si dirige immediatamente nel piccolo paesino del bergamasco alla ricerca del padre Giovanni. Da semplice viaggio di formalità, quello di Paolo si trasformerà presto in un vero e proprio viaggio alla scoperta delle proprie origini famigliari e culturali –non sarà un caso che l’attore-regista Pasotti abbia scelto di ambientare la vicenda nel piccolo villaggio medievale di Cornello del Tasso, nella zona che gli diede i natali. La delicata e preziosa presenza di Herlitzka, punta di diamante del teatro italiano, viene deturpata e resa dozzinale da una regia scialba, incapace di dare una piega originale al film che, dopo un inizio potenzialmente stimolante, si arena in una scontata “conversione sulla via di Damasco” del protagonista.
A suo favore si deve riconoscere come la vicenda sia attraversata da numerosi filoni narrativi e soggetta a diverse chiavi interpretative, sebbene queste siano rese tutte evidenti da una sceneggiatura didascalica che lascia ben poco all’immaginazione. Come suggerito da quella velata punta di ambiguità riguardante fin dal titolo il ruolo sintattico e narrativo dei due soggetti, Io, Arlecchino è la storia di un malfunzionante ruolo di identità, tanto sul piano delle dinamiche famigliari, quanto per la tutela degli usi e i costumi di un paese. La mancata continuità tra le radici e gli sviluppi della tradizione teatrale italiana è incarnata dallo iato culturale che separa Giorgio – appartenente al luccicoso mondo delle lacrime a pagamento per aumentare gli ascolti e dei gossip rubati –, e Giovanni, balaustro posto a difesa della maschera più famosa della Commedia dell’Arte Italiana. Se ogni tentativo del primo è teso a ottenere maggiore notorietà e visibilità sul piccolo schermo, in uno sforzo continuo che ai contenuti privilegia l’aspetto dello studio e il trucco, autentica preoccupazione del secondo è di riuscire a trovare una sede, sia essa una chiesetta sconsacrata o una piazza pubblica, che possa ospitare lo spettacolo della sua compagnia di paese.
La contrapposizione tra i due mondi è ulteriormente sottolineata da una caratterizzazione dei personaggi che scivola nel parodico, dando così vita a figure come quella dell’imprenditore televisivo abile nello sfruttare le velleità artistiche di giovani aspiranti soubrette, o della giovane paesana bella e pura di cuore (una Valeria Bilello che dopo interpretazioni più o meno meritevoli in varie sitcom italiane, si ricicla con incredibile maestria a fianco del magnifico Herlitzka). Il cast, formato da un arcobaleno di attori che da realtà popolari del piccolo schermo (Lunetta Savino con Un medico in famiglia, Lavinia Longhi con Mario, Gianni Ferreri con Distretto di Polizia e Massimo Molea con I Cesaroni) tenta il balzo al grande schermo, incide affannosamente sul risultato complessivo con interpretazioni lente e strascicate, eloqui poco scorrevoli e una gestualità da principiante. Erica Belluzzi
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