Io che forse dovrei farmi odiare un po’

Da Thefreak @TheFreak_ITA

Quante volte ho ripensato a quella sera.

Tu con la mia giacca indosso mentre torniamo da una passeggiata sul lago.

Io che provo a fare l’odioso, dato che l’essere espansivo in passato si è rivelato un difetto.

Tu che con la scusa dei tacchi ti fermi ogni dieci passi per riprendere fiato, ma anziché appoggiarti ai lampioni al sodio a bassa pressione – quelli che fanno una luce rossastra – ti appoggi alla mia spalla, mentre in equilibrio ti sistemi una calza che ti fa le grinze sotto la pianta del piede.

Nel fare quel movimento si sente il tintinnio del bracciale con scritto il tuo nome, unico suono in una notte di maggio ancora troppo lontana dal chiasso dell’estate.

Io che trattengo il fiato per poter nascondere quei chili in più che speravo già non si vedessero da sotto la giacca, ma che ora, che ero rimasto in camicia, erano evidenti. Credo.

Tu che una volta sistemata la scarpa, mi fai cenno di ripartire. Io che non mi sistemo la cravatta attorcigliata intorno al collo per il leggero vento alzatosi, credendo di avere un’aria più bohèmien con qualche particolare fuori posto.

Tu che avevi provato a portarmi a ballare. Io che, per risultare ancor più odioso, avevo accettato, a patto di rimanere immobili a bordo pista e sparlare degli altri.

Tu che avevi fatto una smorfia, delusa. Io che ne avevo gioito dal di dentro, perché di amiche ne avevo fin troppe.

“Fatti odiare” mi dicevano. “Noi, noi donne, amiamo chi non sopportiamo. Se ti detesta, forse puoi piacerle. Se ti è amica, dimenticala”.

Ed io così avevo fatto. Tu che mi racconti entusiasta del viaggio appena fatto nei Paesi Baschi.

Io che ti rispondo che le vacanze sono una perdita di tempo se non sono dei viaggi. Tu che capisci cosa voglio dire e mi ripeti che, appunto, quello era stato un viaggio.

Io che capisco, ma ti rispondo comunque di no. Continuiamo a camminare, io con le mani in tasca e tu con braccio aggrovigliato al mio.

Tu che ti reggi con la mano libera il bavero della mia giacca appoggiata sulle tue spalle.

Io che faccio del facile sarcasmo su quanto sarebbe patetico se in quel momento iniziasse a piovere.

Io che ti dico che sarebbe proprio una di quelle scene da commedia per la tv del mercoledì pomeriggio d’estate. Io che in realtà spero che piova più di ogni altra cosa.

Poi, all’improvviso, il bacio.

Inaspettato, come un colpo di scena in una trama che piano piano si sta appiattendo e annoiando i lettori.

Tu che ti fermi per l’ennesima volta, io che mi volto verso di te già con la faccia volutamente odiosa, di chi si sta stizzosamente fermando per aspettarti e vuole soltanto fartelo pesare con lo sguardo.

Tu che non ti sistemi la scarpa, ma guardi attraverso me a braccia conserte, con l’espressione di chi sta facendo a mente un piccolo calcolo aritmetico che ha già fatto, ma che vuole controllare sia corretto.

“Mmm ok” sembri pronunciare mentre ruoti lo sguardo in alto facendo compiere un piccolo arco ai tuoi occhi dietro ai vistosi occhiali da vista.

Io che mantengo la faccia schifata, anche se ho già capito.

Tu che con un movimento impercettibile ti inumidisci le labbra prive di rossetto, per non arrivare al contatto troppo fredda e ruvida.

Io che probabilmente faccio lo stesso ma non me lo ricordo.

In pochi minuti siamo di fronte al nostro hotel. Tu che ci lavori da anni. Io che ne sono ospite da ieri e che già domani lascerò.

Tu che mi saluti con un bacio sulla guancia. Io che nemmeno ti chiedo di salire. Tu che mi riconsegni la giacca.

Io che già sento il muschio bianco impregnarmi la camicia ed il resto dei vestiti in valigia. Tu che mi saluti con un gesto rattrappito, ancora intirizzita dal freddo anomalo di una primavera tardiva. Io che rispondo al saluto con un’alzata di mento quando invece avrei voluto abbracciarti e scaldarti ancora un po’.

Io che la mattina seguente mi impongo di non scriverti. Io che qualche giorno dopo ti scrivo un messaggio, talmente ricercato e studiato che al momento di inviarlo mi sembra già vuoto di significato.

Tu che non mi rispondi, né subito, né dopo, né mai.

di Simone Pizzo All rights reserved

Nota biografica

Simone Pizzo nasce a Viterbo senza troppi clamori.

Ad un passo dalla Laurea in Informatica si rende conto di aver sbagliato facoltà ma ormai è troppo tardi.

Si laurea col massimo dei voti, prosegue con l’informatica anche in ambito lavorativo ma la sua passione è scrivere, così tra una riga di codice e l’altra racconta storie con lo pseudonimo Boston. Pendolare e consulente informatico, rappresenta la summa maxima di tutto ciò che è male.


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