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Io, che vivevo a Crevalcore colpito al cuore dal terremoto

Creato il 04 giugno 2012 da Silvanascricci @silvanascricci

Voglio riportare questo bellissimo racconto/resoconto di Andrea Segrè, preside della facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, perchè si possa vedere la natura in modo diverso e, diversamente, interpretare l’economia e la crescita continua.

Io, che vivevo a Crevalcore colpito al cuore dal terremoto

Vivo a Crevalcore. O forse sarebbe meglio dire, vivevo a Crevalcore. Fin che non ci sei dentro, proprio dentro, il terremoto è qualcosa di astratto. Un altrove, vicino o lontano che sia non cambia: è fuori da te. Ma quando ti fa vibrare anche le corde dell’anima, allora la prospettiva cambia e improvvisamente ti pervade. E anche parole come evacuato, sfollato, terremotato – una volta distratti titoli di giornale – assumono un peso diverso. Ti appesantisci, appunto. Come a riempire quel vuoto momentaneo (?) della terra. Questa terra che ti violenta, e che tu hai violentato, noncurante. Tutto questo cemento: colate infinite, spesso inutili. O meglio utili speculazioni, per qualcuno. Cubature impermeabili, che tutto fanno scorrere: l’acqua e il danaro. E che poi, a un certo punto, ti cadono addosso. Sporcandoti, se va bene. Seppellendoti, se invece va male. Quando lavori, per giunta. Solo perché manca un giunto: incredibile perdere la vita così. Incredibile perdere la vita, quando molto si potrebbe fare per prevenire. Non si fa perché, a monte, abbiamo perso il rapporto con la Natura, invertendolo. Le nostre Eco – l’ecologia e l’economia – si sono scambiate di posto. Abbiamo pensato che la buona gestione della casa piccola, letteralmente l’economia, potesse contenere la casa grande: l’ecologia. Non riconosciamo i limiti ecologici della terra, figurarsi se accettiamo il suo essere naturale e viva. Cambiamo – adesso – le posizioni e le proporzioni. Non sapremo prevedere i terremoti, ma saremo più pronti.
Non può essere questo il lato positivo della catastrofe che ha sconvolto le nostre vite e i nostri lavori? Contabilizziamo pure i danni alle persone, alle abitazioni, all’agricoltura, industria e servizi: ma non potremmo anche pensare a una vera occasione di cambiamento? Uscire da quella crisi continua che ci impedisce di capire e agire per cambiare qualcosa di un modello, sistema, paradigma – insomma il nostro essere cittadini di un mondo in crisi?
Eppure, queste corde dell’anima che vibrano tutte all’unisono ci trasmettono qualcosa. Quegli sguardi attoniti e interrogativi nella piazza buia dopo la prima scossa. Gli occhi dei vicini che scopri per la prima volta profondi e che si domandano insieme a te: ma cos’era? Quel parlarsi di continuo della continuità del tremare scaricando angoscia e tensione. Quella zona rossa che dopo la seconda scossa perimetri assieme ai nuovi compagni valutando insolite pendenze e fresche aperture, foriere di possibili abbattimenti. Quella gioia di entrare nella tua casa e prendere qualche oggetto sotto gli occhi, vigili per definizione, dei pompieri. Capaci non solo di darti l’elmetto ma anche di spingere il tuo carrello, non più ricolmo di generi alimentari, ma delle tue cose prese a caso in attesa di un improbabile rientro. Quel tuo essere evacuato al mare – un perfetto bilanciamento – dove ti dicono: ma lei è nostro ospite. Assieme a tanti ignari turisti tedeschi, ignari di un altrove che è sempre lontano. Quell’offerta di case, aiuti e assistenza da amici e anche sconosciuti. Quei container calati sulle stalle degli allevatori che devono mungere due volte al giorno. Quegli imprenditori che non si lasciano abbattere ma continuano a pensare al futuro. Quel riempire i conti correnti spuntati come funghi pensando che gli aiuti non scaricano più una coscienza distratta, ma presente, necessaria. Piena di volontà di ripartire, ricostruire, rifondare una società malata e stanca. Opulenta ma povera. Eppure ricca nel momento del bisogno. Una povertà che si fa ricchezza, anima delle persone.
Questo è il terremoto dell’Emilia visto dal di dentro. Nella bassa che si è abbassata. Sputando sabbia e melma. Ma dove rispunta quel gene antico e robusto della cooperazione e della solidarietà. Per troppo tempo silente, come fosse distratto da altro. Ora bruscamente risvegliato nelle corde della sua anima più profonda e più autentica.
E quella frase antica che ti ricorda il liceo in una terra di altri terremoti, il Friuli: “gli alberi non crescono fino in cielo”. Come dire: basta con questo modello legato alla crescita infinita. Cui va aggiunto un detto della nuova sapienza emiliana, sempre più convinta: “e le mucche non mangiano cemento”. Uno stimolo per l’Italia intera.

Andrea Segrè

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