Lo so, sono il solito becero italiano medio consumista, ma chi se ne frega, io dovevo comprare il liquido per il radiatore dello scooter che era rimasto a secco e praticamente mi si stava fondendo la testata, quelli che dovevano comperare i regali erano gli altri, ed erano tanti, tantissimi.La faccio breve, a differenza della fila che ho dovuto fare alla cassa. Dopo un’oretta e mezza di passione sono uscito vivo da quell’incrocio tra un mercato di Calcutta e un ufficio postale in date di consegna della pensione e in quel momento, tornando verso il parcheggio con il bidone in plastica da 5 litri pieno di liquido refrigerante “pronto all’uso”, sono stato folgorato da un’idea: comprare un regalo. Un regalo di sostanza, un regalo elegante che fa molto impegnato: un libro.
Dove comperare un bel libro, magari anche due, in un centro commerciale pullulante di consumatori impazziti alla ricerca del regalo last minute?
Beh, sì, sarei potuto andare nel reparto libri del supermercato, ma solo l’idea di rientrare in quel luogo di perdizione mi metteva l’ansia, quindi ho optato per la grande libreria situata nelle gallerie, in mezzo ai negozi di abbigliamento e calzature, l’enorme libreria. Ed è lì che ho conosciuto Giangiacomo.
Non è che in libreria ci fosse meno calca, ma come dire, era gente “diversa”. Tutto un fiorire di pantaloni in velluto, camicie bianche, ballerine, stivaletti con gli strass (ma non volgari), pashmine colorate (ma con colori tenui), maglioncini girocollo intrecciati con fibre provenienti da coltivazioni eque e solidali.
Tanta gente in libreria è un bel segnale, mi son detto, e poi dicono che gli italiani non leggono e sono tutti rincretiniti dalla tv. Ma molta gente in libreria corrisponde a tanti lettori? Non posso dirlo, sto cauto allora, sono garantista, non posso sputare sentenze, diciamo che come minimo molti italiani, di libri, son gran collezionisti.
Anche qui fila quindi, interminabile, da muro a muro, dallo scaffale più lontano fino alla cassa, ma non fila ignorante bensì fila pregna di cultura. Mi sono ritrovato in mezzo a gente con libri in mano, una montagna di libri, mica giocattoli plasticosi, romanzi di alto livello, mica libri di cucina scritti da gente venduta alla tv commerciale.
E così, rigirando tra le mani Ventimila Leghe sotto i mari e Viaggio al centro della terra, mentre aspetto in fila, mi sento degli occhi addosso, insistenti, come se mi fissassero.
Sarà l’effetto della lunga sosta di fianco al distributore con la classifica dei più venduti. Avete presente lo scaffale fantasmagorico che espone i primi dieci libri in classifica più venduti del momento? Sicuramente l’avrete presente. In cima, vendutissimo da quelle parti, il libro di Luciana Littizzetto, con in copertina due piedoni dipinti di verde che inforcano delle infradito da piscina nere. Praticamente per me come per Superman la criptonite. E poi più in basso Carofiglio, in buona compagnia di Camilleri e persino di Emis Killa, uno che con la letteratura ha a che fare come Kim Jong Un con la democrazia.
In fondo, solo soletto, ma comunque tra i primi dieci, anche l’immancabile libro di Bruno Vespa “Italiani voltagabbana”, e si sa che Brunone da quelle parti non è amatissimo.
Libri su libri, un oceano di tomi di carta e quando uno, secondo me un infiltrato provocatore, chiede alla cassa di poter avere un ebook reader, un Kobo Aura, ecco gli sguardi e i sorrisini di disprezzo intorno, la stessa cassiera un po’ scocciata lo guarda come la contessa guarda la popolana alla cena di gala che sbaglia nel prender la forchetta dal set apparecchiato.
Giangiacomo mi guarda, mi fissa, con quegli occhi neri penetranti sotto le sopracciglia folte che un po’ si intravedono sopra la montatura nera e grossa degli occhiali che si usavano molto lo scorso anno, con i suoi baffi folti, vagamente somigliante a Groucho Marx, il comico, il Marx che fa ridere volutamente.
Giangiacomo Feltrinelli, il fondatore, partigiano, morto nel 1972 secondo alcuni ad opera della CIA, per altri dilaniato dallo stesso ordigno che stava installando con intenti sabotatori, editore venerato in certi ambienti, quelli della sinistra “‘bbbene” quello che ha costruito un impero del consumo sulla letteratura, ma che schifo il consumismo, quello che nello scaffale all’ingresso in bella mostra ha un libro con una donna completamente nuda, che fuma, scosciata e ammiccante, ma il corpo delle donne non conta perché è un libro di Bukowsky, quello che un tempo in cima c’era Philip Roth, noioso come pochi ma con una certa predisposizione per la scrittura e ora Luciana Litizzetto (non mi dilungo sulle scene di venerazione a cui ho assistito per limiti di spazio) fino a quando non esce il nuovo di Gramellini o di Michele Serra. Quello che un tempo si leggeva Sciascia, e ora si legge Travaglio. Vabbè, sto divagando.
Ho conosciuto Giangiacomo, e mi ha pure parlato, o meglio ha tentato di farlo attraverso le parole stampigliate nel suo cartonato che regnava sopra la cesta dei libri fuori corso e a buon prezzo, insomma sull’outlet. Giangiacomo mi fulminava con una sua massima, quasi un’aforisma: “Il grado di civiltà del nostro paese, dipenderà anche, e in larga misura, da cosa, anche nel campo della letteratura di consumo, gli italiani avranno letto”.
E son rimasto folgorato sulla via di Damasco. Ero troppo avanti nella fila per tornare indietro a ghermire il libro della Litizzetto o quello di Roberto Saviano, il Jules Verne che avevo in mano mi sembrava poco “alto”, dozzinale. Ho potuto rimediare solo alla cassa, aggiungendo ai miei due libri anche il kit per riparare occhiali con mini cacciavite, due vitine di ricambio, due guarnizioni, ripara-naso a soli cinque euro.
[Articolo pubblicato anche sul sito Moschebianche]