Quel qualcosa di oscuro, di primordiale, che avverti quando giungi in terra d’Africa ti aiuta, in un certo senso, a ritornare bambina. Sono in molti a sottolinearlo. Lo sforzo iniziale un po’ti pesa, perché hai paura di non farcela. Infine, però, è come se rinascessi a te stessa. E la cosa ti piace. Ci si libera di quanto lasciato alle spalle.
E’ quasi, azzarderesti, una specie di rituale di purificazione.
Il caldo secco e polveroso, come le piccole o grandi piogge a seconda delle stagioni, la luce abbagliante o il cielo plumbeo e minaccioso,il fango in cui s’impantanano le ruote dei fuoristrada, i mercati pieni di odori, di colori e di tanta dignitosa miseria, tutto è parte di quell’immersione terapeutica, che nasce dal poter vedere finalmente, con i propri occhi, come vive il resto del mondo.
E spariscono ,a quel punto, persino le possibili malinconie. Quelle costruite da noi stessi. Mentre è importante il provare a bypassare i luccichii delle nostre città caciarone e, oggi, distratte in eccesso.
La nostra immaginazione continua a esigere d’alimentarsi. E se da adolescente fuggi i luoghi comuni, quelli che ti propina la tua cerchia amicale e familiare, tuffandoti magari nei libri, in età adulta la complessità del mondo pretendi di toccarla con mano.
E la complessità africana è semplicità tout court. E lo è a dispetto di ciò che si blatera in giro, pur di non provare affatto a scalfire, neanche per un po’, certi egoismi.
E’ autentica scuola d’umiltà cui necessita attingere. E scopriremo, allora, molto più di quanto noi pensassimo di conoscere già.
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)