Magazine Diario personale

Io non ti lascio

Da Icalamari @frperinelli

 

Sto leggendo un libro che mi commuove a ogni pagina, La Strada, di Cormac McCarthy. In un imprecisato scenario post-apocalittico, un padre sceglie di continuare a vivere soltanto perché ha su di sé la responsabilità del figlio. Quest’ultimo scampa di continuo alla morte, confidando imperterrito nel genitore, al quale impone di rivolgere anche a sé stesso le cure che riserva a lui.

Da sempre, tra i miei pochi punti fermi c’è la convinzione che l’Uomo trovi senso e scampo solo nel curare e proteggere i propri figli e figlie (in senso lato: nel mondo occidentale non figlia più nessuno – e questa forse è una parte del problema), anche a costo della sua stessa vita. E nel riuscire a trovare in sé la bambina o il bambino di un tempo, nel curarlo e proteggerlo con lo stesso impegno che mette o metterebbe per un figlio.

La scrittura di McCarthy è piana e prodigiosa: da giorni convivo con un’eco che rimanda un’immagine precisa, ma dai contorni sfumati. Un’immagine che non ero riuscita a identificare finché non mi sono imbattuta nella newsletter di Amici Della Terra, L’Astrolabio.

Davanti agli scatti della pluripremiata fotogiornalista americana Stephanie Sinclair, ho rintracciato finalmente la fonte di quell’eco. Era la piccola Mathilda, che gridava, aggrappandosi a Léon, un attimo prima di perderlo per sempre: “Io non ti lascio”, al minuto 88 dell’allucinata favola raccontata da Besson, che mette faccia a faccia, nei confini di un amore totalmente privo di connotazione sessuale, un uomo e una bambina.

Si finisce sempre per separarsi, è la vita. Ma a me, come a McCarthy, sembra (e forse è un’illusione, ma un’illusione talmente calda, consolatoria e necessaria) che nel ripetere a sé stessi più che ad altri “Io non ti lascio”, risieda la forza e l’ultimo motivo per continuare ad avanzare nell’oscurità.

Rajani

L’immagine sopra riportata somiglia all’abbraccio disperato di Mathilda con Léon, ma invece ha un significato esattamente opposto: “Io ti lascio”, e ha inizio l’orrore.

Cliccando QUI si trova una presentazione del lavoro fotografico di Stephanie Sinclair in Afghanistan, Yemen, India, Nepal ed Etiopia. Paesi nei quali le bambine possono essere vendute dalle proprie famiglie a uomini molto più grandi di loro, i quali possono abusarne come vogliono fin dalla più tenera età. Molte di loro scelgono il suicidio.

Nelle ultime diapositive c’è l’immagine dell’arresto di un uomo che aveva tentato di uccidere la sua sposa bambina rifugiatasi presso i genitori dopo un anno di violenze subite. L’agente ritratta in quello scatto, Malai Kakar, era stata la prima donna poliziotto di Kandahar, poi divenuta Capo del Dipartimento dei crimini contro le donne. Malai fu assassinata dai talebani nel settembre 2008.

Mi dispiace, il problema esiste. Mi dispiace perché non vorrei che fosse così, così come non vorrei sentire voci che normalmente sento vicine, amiche, infastidirsi davanti a chi solleva la questione del Femminicidio.

Certo, la violenza e l’assassinio (morale o materiale) a movente sessuale, giustificati per cultura, religione, o semplicemente coperti dal silenzio della vergogna e della connivenza, sono esperienze che, in Italia e nel mondo, accomunano entrambi i sessi. So per certo che qualcuno alza le sopracciglia, incredulo. Dia una letta QUA, gli uomini possono subire le stesse vessazioni delle donne, riportandone danni fisici e psicologici altrettanto difficili da tollerare. Ben venga allora chi solleva i problemi e, soprattutto, chi cerca di risolverli.

Ma, si può essere contro chi prova ad affrontarne almeno uno? Si può seriamente sostenere che tutti gli omicidi sono uguali e quindi tanto vale protestare contro la violenza dell’Uomo sull’Uomo? A me questa generalizzazione suona come la frase “Piove, governo ladro”, che giustifica il fatto di lasciare le cose come sono, data la loro inaffrontabile enormità.

Non festeggio mai l’otto marzo in quanto “Festa” della Donna. Che allegria, siamo donne, festeggiamo. Ma utilizzo questa giornata per raccogliere informazioni e riflettere sulle distorsioni che si producono all’interno di una società globalmente ancora molto maschilista. Questa è, forse, l’unica distinzione che rende indispensabile, oggi, sostenere una battaglia di genere.

Quella contro il Femminicidio, termine fastidioso e cacofonico quanto si vuole, anzi, disturbante. Perché mette un accento sgradevole su evidenze accettate da tutti.

Non sarà più solo una battaglia di genere nel momento in cui, uomini e donne, potremo disporre in modo paritario dei diritti umani. Quando tutti gli omicidi, alla fine, saranno veramente uguali.

“Da parte di Mathilda” – estratto da Léon di Luc Besson


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