Il mio editoriale pubblicato sul numero di Araberara del 11.10.2013.
Un pubblico speciale
Di fronte a me, un’ottantina di occhi puntati addosso.
Sguardi silenziosi che si fanno luce nella notte mediterranea.
Donne, bambini e uomini, tutti squadrano gli occupanti della scrivania. Non vola una mosca all’interno di un’atmosfera surreale. Mi rendo conto di vivere un pezzo di storia, un frammento d’immigrazione dell’umanità che finirà sui giornali, nelle riviste e in chissà quanti libri, un fenomeno migratorio che sarà analizzato da uno stuolo di intellettuali e benpensanti nelle loro indagini sociologiche.
Mi riscopro un privilegiato con la “P” maiuscola e mi riprometto di non scordarlo mai. Cerco di assorbire questi istanti in maniera distaccata, per mettere a fuoco le priorità del mio operato, in veste di poliziotto.
Hassan, l’interprete nonché mediatore culturale sta trafficando con il computer e mi dice che prima di iniziare dovremo attendere qualche istante. Passeggio verso la recinzione dell’aeroporto. Il cielo è lindo, pulito e le stelle risplendono. Gli sbarcati si sono piazzati sui materassini procurati all’ultimo momento dagli addetti del centro. Alcuni aspettano il loro turno sdraiati, altri invece attendono di essere chiamati per il colloquio a gambe conserte. Nonostante la stanchezza, percepisco nei loro occhi determinazione e orgoglio, oltre ad una sottile soddisfazione di avercela fatta, di essere arrivati in Italia. Vivi. Nella terra dei loro sogni.
Non avevo idea di come fossero i volti della disperazione. Quella vera. Ora inizio a comprenderlo, mentre scopro l’espressione della dignità, incisa in tutti questi occhi direzionati verso di me. Eccolo qui, di fronte a me, lo sguardo dei viaggi della speranza.
Scusate se comprendo solo ora, mi viene da pensare. Scusate se io sono qui, sano e agiato, e voi invece siete lì, stremati, a lottare per la vita. Scusate se io ho avuto la fortuna di nascere a nord di questa terra e voi invece la cattiva sorte di nascere a sud. Posso solo chiedere scusa. Da oggi proverò a essere con voi, più solidale, almeno nei confronti di chi è giunto qui per disperazione e non per delinquere…
Ci penso. Forse sono io lo sbarcato, non loro.
Sono io lo sbarcato in mondo dove la vita è rude e arida e non grassa e opulenta come appare invece nella mia terra.
Scorriamo in fretta le donne e i bambini. Loro hanno la priorità, oltre che una corsia preferenziale. I figli vengono direttamente associati ai genitori senza essere intervistati per permettere loro di andare a riposare il prima possibile. Ecco perché ultimiamo velocemente le 15 donne con i relativi 7 figli e passiamo agli uomini. Il primo intervistato è un tale Rachid, che viene interrogato con maggiore accuratezza.
Declina generalità marocchine e spiega ad Hassan che l’imbarcazione su cui ha viaggiato era salpata circa 4 giorni prima, due dei quali trascorsi senza acqua e cibo. Racconta anche che aveva sentito che c’erano stati problemi di rotta e perciò erano rimasti in mare più a lungo del previsto. Alla richiesta di chiarimenti sull’identità dello scafista, cioè colui che conduceva la barca, afferma di non ricordare di chi si trattasse. A una seconda richiesta, conferma la stessa cosa.
Il problema è uno solo: lo scafista non può che essere che uno degli stessi sbarcati e va individuato. Per lui è previsto l’arresto trattandosi del principale responsabile del reato di favoreggiamento all’ingresso sul territorio nazionale di cittadini clandestini.
Hassan decide di non insistere oltre e data l’ora tarda, andiamo avanti.
Al termine dell’intervista di Rachid, annota la nazionalità dichiarata, segnalando anche quella presunta, ovvero quella che desume essere la più probabile in base al colloquio sostenuto. Se entrambe coincidono, significa che il clandestino ha declinato generalità attendibili. Se invece attraverso gli elementi acquisiti (accenti, inflessioni linguistiche o abitudini accertate) l’interprete ha il sospetto che la provenienza reale sia differente da quella indicata, le due voci sarebbero state difformi.
In quest’intervista le voci combaciano e Hassan me lo conferma facendomi l’occhiolino.
Di seguito, diamo al clandestino un foglietto su cui è apposto un timbro con il numero progressivo e la data dello sbarco. Da quel momento, per facilitare le operazioni di riconoscimento e di organizzazione all’interno del centro, quel numero viene abbinato inscindibilmente al nome dichiarato.
Rachid è pronto per essere condotto presso i locali che lo ospiteranno nei giorni a venire, ma prima bisogna fargli una fotografia. Impugno la macchina digitale e faccio uno scatto con lui che mostra un cartellino plastificato riportante lo stesso numero assegnato. In questo modo si crea un ulteriore riscontro fotografico attestante le generalità fornite. Quest’ultima procedura viene attuata per evitare che gli sbarcati possano scambiarsi tra di loro identità e numero correlato.
Sono le 03.30 della mattina quando Hassan termina di stilare la lista completa degli sbarcati.
In totale, contiamo 173 persone arrivate a bordo di tre imbarcazioni. Nel dettaglio si tratta di 151 uomini, 15 donne e 7 bambini.
Un piccolo esercito della pace in cerca di speranza.
Prima di rientrare in ufficio, mi ritrovo per un attimo solo. Il cielo è così bello e stellato che da la sensazione di esserlo tutte le notti. Il piazzale è vuoto e le luci dell’aeroporto spente. Solo i lampioni del centro rischiarano la notte che si affaccia sul Mediterraneo.
Mi sento esausto. Anche dentro.