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Come potevo spiegare a quest'uomo quanto desiderassi lavorare? Aveva la minima idea di quanto mi mancasse il mio vecchio impiego? La disoccupazione per me era sempre stata un concetto astratto, qualcosa di cui si parlava ripetutamente nei telegiornali in relazione a cantieri navali o case automobilistiche. Non avevo mai riflettuto sul fatto che la mancanza di un lavoro potesse essere dolorosa come la mancanza di un arto, un pensiero costante, tormentoso. Non avevo considerato che, oltre agli ovvi timori riguardo il denaro e il futuro, perdere il lavoro mi avrebbe fatto sentire inadeguata e un po' inutile. Che alzarsi al mattino sarebbe stato più difficile rispetto a quando la sveglia mi catapultava bruscamente nella realtà.
Avevo ventisei anni e non sapevo chi fossi veramente. Fino al momento in cui avevo perso il lavoro, non me lo ero mai chiesto. Pensavo che magari avrei sposato Patrick, messo al mondo un paio di bambini, e mi sarei trasferita a pochi isolati da dove avevo sempre vissuto. A parte una certa stravaganza nell'abbigliamento e il fatto che sono un po' bassa, non sono poi così diversa da chiunque potreste incontrare per strada. Probabilmente non vi voltereste a guardarmi una seconda volta. Una ragazza normale che conduce una vita normale. In effetti, mi andava bene così.
«Desidero con tutte le mie forze tornare a usare il cervello. Lavorare dal fioraio mi sta logorando. Io voglio imparare qualcosa. Voglio migliorarmi. E sono stanca di avere le mani sempre gelate a forza di stare nell'acqua.»
Si può aiutare solo chi vuole essere aiutato.
«Come, hai sempre vissuto qui? Dove hai lavorato?»
«Soltanto qui. [...] Perché? Che c'è di tanto strano?»
«È una città così piccola. Così limitante. Dove tutto ruota intorno al castello. [...] Penso sempre che questo sia uno di quei luoghi dove la gente desidera tornare quando è stanca di tutto il resto, o quando non ha abbastanza immaginazione per andare da qualche altra parte.»
Vi posso dire con precisione il giorno esatto in cui ho smesso di essere coraggiosa. [...] Mia nonna era morta un mese prima dopo una lunga malattia, e l'estate era avvolta da un sottile velo di tristezza. [...] Io avevo vent'anni e avrei conosciuto Patrick meno di tre mesi dopo. Ci stavamo godendo una di quelle rare estati di assoluta libertà: nessuna responsabilità finanziaria, niente debiti, nessun obbligo di occuparsi di qualcuno. Avevo un lavoro stagionale e tutto il tempo del mondo per imparare a truccarmi, mettere i tacchi suscitando la disapprovazione di papà, e in generale per capire semplicemente chi ero.
«Come pensi che io abbia fatto i soldi?»
«Truffando la gente nella City?»
«Ho capito quello che mi avrebbe reso felice, ho capito quello che volevo fare e mi sono impegnato per cercare il lavoro che mi avrebbe consentito di realizzare entrambe le cose.»
«La fai semplice.»
«È semplice.» disse. «Il punto è che questo comporta anche un sacco di duro lavoro. E la gente non ha voglia di impegnarsi.»
Avrei voluto contraddirla, ma poi mi resi conto che nulla di ciò che avevo fatto negli ultimi sette anni indicava che io avessi l'ambizione o il desiderio di superare i confini del mio piccolo mondo. Seduta là, mentre il vecchio motore stanco dell'autobus brontolava e vibrava sotto di noi, ebbi l'improvvisa consapevolezza che il tempo scorreva veloce e che ne stavo perdendo una parte consistente nei miei brevi tragitti su e giù per la stessa strada, continuando ad aggirarmi intorno al castello, guardando Patrick inanellare giri r giri di pista. Le stesse preoccupazioni insignificanti. La stessa routine.
«So che la maggior parte della gente pensa che vivere nelle mie condizioni sia praticamente la cosa più terribile che possa capitare, ma potrebbe anche andare peggio. Potrei finire per non essere più in grado di respirare da solo o di parlare, oppure avere dei problemi circolatori che potrebbero implicare l'amputazione degli arti. Potrei essere ricoverato per un tempo indefinito. La mia non è una gran vita, Clark, ma quando penso a quanto potrebbe peggiorare certe notti resto disteso sul letto e mi manca il respiro.»
Deglutì. «E sai una cosa? Nessuno vuole sentir parlare di tutto questo. Nessuno vuole sentirti dire che sei spaventato, o che soffri, o che hai paura di morire per colpa di qualche stupida infezione presa per caso. Nessuno vuole sapere come ci si sente a essere consapevoli che non farai più sesso, non mangerai mai più il cibo che hai cucinato con le tue stesse mani o non potrai più tenere tuo figlio tra le braccia. Nessuno vuole sapere che qualche volta mi sento così intrappolato su questa sedia che ho soltanto voglia di gridare come un pazzo al pensiero di trascorrere un altro giorno inchiodato qui. [...] Tutti vogliono vedere il lato positivo. Hanno bisogno che io veda il lato positivo. Hanno bisogno di credere che esista un lato positivo.»
«Io voglio che lui viva. [...] Ma voglio che viva se è lui a desiderarlo. Se non è così, se lo costringiamo a tirare avanti, non importa quanto gli vogliamo bene: diventiamo solo degli altri stronzi che gli impediscono di fare le sue scelte.»
Mi sentivo come mia sorella quando aveva appena dato alla luce Thomas. "È come se guardassi attraverso un imbuto" aveva detto, osservando il suo piccolino. "Il mondo si è ristretto a me e a lui."
Tu hai cambiato la mia vita molto più di quanto questo denaro potrà mai cambiare la tua.
Non pensare a me troppo spesso. Non voglio pensarti in un mare di lacrime. Vivi bene.
Semplicemente, vivi.
♥ I miei scarabocchi su "Io prima di te", Jojo Moyes
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