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“Io sono Zero” di Luigi Ballerini, Il Castoro

Da Federicapizzi @LibriMarmellata

zeroSi muove tra distopia e fantapolitica il nuovissimo romanzo di Luigi Ballerini pubblicato dalla casa editrice Il Castoro, “Io sono Zero”. Avvincente nell’idea e nello stile, ma ciò che tiene incollato il lettore non è prevalentemente l’azione o l’impeccabilità della trama, quanto l’accurata indagine psicologica, ancorata anche a problematiche di spunto contemporaneo, che l’autore porta avanti dalla prima all’ultima pagina scavando nelle paure, nelle speranze, nei dubbi, dei dolori e, infine, negli atti di coraggio e volontà del giovanissimo protagonista.

D’altra parte credo che molti romanzi distopici o fantascientifici, oltre l’intreccio fantastico, offrano diversi spunti per pensare, o ripensare, il reale, nei suoi possibili sviluppi devianti, non tanto per avallare istanze di conservazione – anzi, molti libri del genere mettono in guardia contro derive totalitaristiche o sistemi iper-controllanti – quanto per ricordare i rischi insiti nelle tecnologie, se queste vengono usate da pochi contro i più, dall’uomo contro la natura, a favore dei conflitti o per smanie di potenza e arricchimento di vario tipo.

Che scienza e tecnica servano alla guerra è un dato di fatto, tanto che molte delle innovazioni che ora usiamo si sono sviluppate in ambito militare o durante i maggiori conflitti. Anche la guerra a distanza è già una realtà, basti pensare ai tristemente famosi missili intelligenti, alle bombe comandate in remoto o ai droni.

Infondo ciò che crea nell’uomo resistenza alla guerra non è soltanto la paura di morire ma anche la difficoltà di uccidere, di sperimentare l’orrore di un altro essere umano che cade per propria mano. Togliere alla guerra il contatto col nemico significa renderla più facile, asettica, indolore. “Occhio che non vede cuore che non duole” recita la saggezza popolare ed è indubbio che un immenso videogame fa molta meno spavento di una trincea e del fischio dei proiettili accanto.

Siamo poi nell’epoca delle realtà virtuali, i nostri ragazzi, i bambini che nascono oggi, vengono detti nativi digitali perché usano la tecnologia come fosse parte del loro ambiente naturale: imparano subito, manovrando videogame e muovendosi agili su tablet e schermi touch di varia natura, come se non avessero fatto altro dalla nascita. In effetti è così: non hanno fatto altro dalla nascita, ciò che per noi è nuovissimo per loro è il mondo finora conosciuto.

Basta poco a fare due più due ed immaginare l’abilità dei bambini di oggi associata alle modalità di combattere di domani per disegnare lo scenario inquietante che Luigi Ballerini immagina per il suo romanzo.

Ancora più agghiacciante perché egli traccia una realtà dove non soltanto i ragazzini sono addestrati come soldati di una guerra virtuale, ma vengono cresciuti, fin dalla nascita, in totale isolamento, senza il contatto fisico, senza la cura, la tenerezza, senza aver mai visto o toccato un altro essere umano, certi che quello vissuto in solitudine sia l’unico universo esistente, sicuri che niente sia vero a parte poche stanze asettiche, una palestra, una sala di addestramento e una voce, sempre la stessa, che li guida nella quotidianità, come fosse una madre incorporea che dispensa un surrogato d’affetto oltre il quale c’è il nulla.

Zero è uno di questi bambini e ha quasi raggiunto il quattordicesimo anno di età. Vive in quello che lui chiama Mondo e che, nei fatti, è un ambiente chiuso, non più esteso di pochi metri quadri e nel quale tutto è controllato e le cui variabili sono fissate.
Le sue giornate sono sempre uguali: esercizio fisico, pasti bilanciati, ore e ore da passare davanti alla PIC – la postazione interattiva di comando – per imparare a manovrare droni militari con millimetrica precisione salendo via via di livello di abilità. Zero è addestrato a combattere e pensare strategicamente come se fosse, allo stesso tempo, un gioco e l’unico motivo di vita. Il suo solo punto di riferimento è la voce femminile di Madar, che lo istruisce, lo conforta, lo indirizza, senza però mai mostrarsi come persona in carne e ossa.
Solo attraverso i film egli prende conoscenza di un altro tipo di realtà che però per lui è solo finzione, solo immagini costruite dalla fantasia o relative ad un lontano passato.

Ma a differenza delle distopie classiche, dove l’intero pianeta – o almeno ciò che ne rimane – è pervaso da un nuovo ordine, qui al di fuori della realtà di Zero c’è la vita che tutti conosciamo.

Accade così che quando un black out improvviso oscura il suo Mondo, il ragazzo è dapprima convinto di essere semplicemente all’interno di un’esercitazione tesa a saggiare le sue abilità per una qualche promozione di livello. E continua a crederlo con tutta la forza della sua inesperienza e della sua disperazione perfino quando si trova improvvisamente all’aperto, in un luogo per la prima volta privo di soffitto e pareti e per di più in pieno inverno, col freddo mai sperimentato della neve che gli congela gli arti e lo paralizza.
Quando, sopraffatto, perde i sensi viene raccolto da una dottoressa, Stefania, che non esita un attimo a soccorrerlo e prendersene carico assieme al marito, anch’egli medico.

Da questo momento in poi, i due tranquilli coniugi saranno proiettati in un’avventura che presto scopriranno essere più grande di loro. Chi è il misterioso ragazzo che non parla e pare spaventato anche dalla sola presenza di un essere umano? Chi sono i suoi genitori? Chi sono le persone fredde e inquietanti che sembrano cercarlo?
Nel frattempo per Zero si svolge una battaglia interiore tesa a sovvertire tutte le sue certezze e ad aprire nuovi scenari prima inimmaginabili che con coraggio e dolore si troverà a dovere, e infine perfino a volere, accettare.

Il racconto è in prima persona ma Zero e Stefania si alternano come narratori, con un maggiore spazio dedicato al primo e alcune parti portate avanti dalla seconda.
Quando è il ragazzo a parlare la narrazione prende la forma di una sorta di flusso di coscienza giocato tra due nature dello stesso personaggio: quella più umana, libera, impaurita, fragile e quella più costruita, indottrinata, dura, come fosse quest’ultima una sorta di super-io teso talvolta a ricomporre, altre volte ad incrinare.
Questa scelta, che ho apprezzato, conferisce pathos, permette all’autore di indagare meglio i tortuosi meccanismi mentali ed emotivi che possono invadere un ragazzino immaginato in una simile situazione. Fanno esplodere contraddizioni, rivelano i bisogni più intimi, denudano le paure, la ricerca di consolazione, le costruzioni che a volte si mettono in piedi per non accettare o per schermarsi dai cambiamenti.

La metamorfosi di Zero appare così per quello che realisticamente potrebbe essere: un percorso tortuoso che parte dalla necessità di restare in un guscio noto, seppure scoperto falso, e giunge all’impegno di aprirsi alla verità, con tutte le difficoltà e gli ostacoli che questa può comportare.

Trovo che siano davvero molteplici le tematiche psico-emotive e sociali che l’autore ha voluto affrontare raccontando la ri-nascita di Zero.

Dal bisogno di socialità dell’essere umano al rapporto con le figure di cura, con il materno, dal rischio spersonalizzante e de-sentimentalizzante delle derive virtuali alle riflessioni sulla guerra, dalla crescita necessaria– che è sempre un abbandonare il noto per l’ignoto – ai pericoli di una crescita forzata – che è invece una costrizione a saltare le tappe, quindi un restare legati e vincolati.
Parlando di Zero si racconta di un non rispetto dell’infanzia, che può essere tale secondo mille sfumature, dalle più estreme alle più vicine e familiari, magari alcune delle quali portate avanti anche tra le nostre calde pareti domestiche.
Luigi Ballerini è uno psicanalista di formazione e professione, quindi tra nelle sue pagine si riversano riflessioni importanti che possono giungere sia al lettore adolescente che a quello adulto indirizzando una lettura di evasione verso lidi meno spensierati e più emotivamente coinvolgenti.

Trovo però che in alcuni punti lo sviluppo della trama non appaia pienamente convincente. Dal punto di vista dell’intreccio, infatti, alcuni snodi risultano affrettati, come anche lo stesso momento risolutivo, forse liquidato con troppa leggerezza. Si avverte infatti un deciso sbilanciamento tra l’azione e l’introspezione, tanto che la prima ne risente con alcuni passaggi poco giustificati o non adeguatamente preparati.
E’ probabile che per l’autore l’invenzione narrativa fosse prevalentemente un pretesto per arrivare a significati più profondi, sacrificando però a mio parere un po’ troppo la storia.

Fortunatamente questo non incide sulla piacevolezza della lettura, che resta coinvolgente e accattivante. Gradevolissimi stile e costruzione che permettono al lettore di rimanere attaccato alle pagine, curioso in ogni momento di scoprire cosa accadrà.

(età di lettura: da 11 anni)


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