io, sua maestà la vivo così.

Da Leucosia

post iper-riflessivo, che di tanto in tanto ne sento il bisogno.

perchè magari chi passa di qui e mi legge, può darsi può darsi si chieda come io faccia a conviverci. con  ’sta brutta bestia della malattia. con i suoi gingilli, i suoi annessi e connessi. e come faccia a gestire tutto, dalla casa al bambino, dalle terapie a quel minimo di vita sociale alla quale anche le persone con un piccolo/grosso problema di salute hanno diritto.

la parola d’ordine è : organizzarsi. il problema è che io sono un tipo scarsamente tendente all’ordine, il caos è la mia dimensione naturale. dunque devo sforzarmi il più possibile di ricondurre tutto a una razionalità svedese, mettendo in campo i neuroni sueperstiti. ovviamente sono aiutata, specialemente nei momenti più critici. quando qualcuno mi dà una mano, nel vero senso della parola, mi rende la donna più felice della terra. perchè sì, ci sono dei giorni in cui faccio fatica persino a legarmi i capelli, anche se sono giorni rarissimi, ma ci sono.  dopo l’operazione si contanto veramente sulle dita di una mano. e vabbè sono aiutata, e prima me ne facevo una colpa immane. ma come? sono io quella che deve aver bisogno di aiuto? io così giovane, non devo esser aiutata ad attraversare la strada semmai il contrario!

c’è quella fase di rifiuto da parte del malato, dell’esclusione e della rinnegazione che definisco sindrome di wonder woman. è una sindrome pericolosa, perchè ci si autoconvince di essere ancora in grado di compiere determinate azioni. perchè è dura ammettere di non farcela. anni fa mi sbattevo a destra e a manca, ero una trottola vivente. oggi una giornata tipo delle mie, trascorsa a lavoro non riuscirei a sostenerla nemmeno per un quarto d’ora. la stanchezza pervade ogni fibra del corpo.

e a questo punto scatta l’altro meccanismo: il desiderio di far capire a chi mi sta intorno che nonostante tutto sono ancora capace di fare qualcosa. e se sono sola a casa, mi prendo i miei spazi di autonomia. come una persona normale. cucinare ad esempio. appena sono sola tra i fornelli mi sbizzarrisco. una consolazione vera, tangibile!

poi c’è il tentativo di recuperare quello che la malattia mi ha strappato via senza tanti giri di parole.se  il lavoro vero è una chimera, ripiego su alternative meno impegnative. coltivo un mucchio  di interessi, in primis la scrittura,  espando il mio mondo interiore, internet in questo è veramente la miniera inaspettata di possibilità…è davvero poco se paragonato a un’attività lavorativa reale, ma questo al momento mi è concesso di fare. e non perchè non abbia intenzione di lavorare, bensì per i preconcetti che ruotano attorno alla disabilità in sè. a me le gambe tutto somamto non funzionano granchè, ma tutto il resto va’ a meraviglia! ma vallo a spiegare a chi dovrebbe tutelare i nostri diritti di cittadini!

poi c’è il confronto con gli altri. a lungo mi sono sentita come su un piedistallo di cristallo, pronta a precipitare. tenevo a debita distanza quasi tutti, convinta che non potessere capire la situazione (d’altra parte era una situazione così assurda che nemmeno io mi raccapezzavo!) e preoccupata di ricevere un rifiuto ero la prima a rifiutare gli altri.

insomma, sono stata un caso clinico! poi ci si ravvede, perchè si fanno i conti con una solitudine brutta da ingoiare. e se questo percorso di vita è sì estenuante e complicato, costellato di improvvise cadute e bruschi rialzi di testa, purtroppo e per fortuna mi è toccato di interpretare e di vivere su questo pianeta. certo il ricordo di come ero non mi abbandona, quella figura che  ancora conservo di me, una ragazza spensierata e ricca di possibilità -soprattutto piena di salute.

devo ogni tanto farci i conti, spolverare di tanto in tanto quest’immagine nascosta che ho di me nell’armadio dei ricordi, accontentarmi di aver avuto tutto o quasi sotto controllo, con una vita chiavi in mano pronta per l’uso, almeno fino a otto anni fa.

(immagine tratta da qua)



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