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Io Ti Salverò: Freud, Selznick, Dalí e Hitchcock

Creato il 24 luglio 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Io Ti Salverò: Freud, Selznick, Dalí e Hitchcock

Nel pieno della creatività del suo periodo americano e in seguito all'alternanza fra grandi successi del calibro di Rebecca, la prima moglie (1940), Il prigioniero di Amsterdam (1940), Il sospetto (1941), L'ombra del dubbio (1943) e opere meno personali come Il signore e la signora Smith (1941), Alfred Hitchcock decise di dare una corposa sferzata alla sua già solida carriera cimentandosi con le torbide trame della psicoanalisi freudiana. Realizza così nel 1945 Io ti salverò ( Spellbound), pellicola conturbante e ricca di invenzioni tecniche non particolarmente apprezzata però dal suo produttore, David O. Selznick, il quale aveva preteso di avere maggiore controllo su un soggetto che avrebbe dovuto essere specchio fedele delle sue conoscenze personali in materia, esigendo addirittura di portare il proprio terapeuta sul set per offrire consulenza.

Partendo dall'adattamento del mediocre romanzo La casa del dottor Edwardes (1927) di Francis Beeding speditamente rielaborato dall'ottima coppia di sceneggiatori formata da Ben Hecht e Angus MacPhail, il film si snoda attraverso una trama semplice ma ricca di suggestioni, affrontando coraggiosamente e con originalità le spinose tematiche di una psicoanalisi spicciola all'epoca molto in voga negli ambienti intellettuali: all'istituto psichiatrico Green Manors giunge un nuovo direttore, il dottor Edwardes (Gregory Peck), il quale riesce ben presto a fare breccia nel freddo ed apparentemente impassibile cuore della dottoressa Constance Peterson (Ingrid Bergman). Da qui inizia una idilliaca storia d'amore interrotta però nel momento in cui si viene a scoprire che Edwardes non è chi dice di essere. Egli è in realtà uno psicotico ossessionato dal colore bianco che si è impadronito dell'identità del vero dottore, di cui per altro non si sa più nulla. L'uomo ha del tutto perso la memoria e l'unica cosa che sappiamo di lui è che J. B. sono probabilmente le sue iniziali. Follemente innamorata, Constance deciderà di nascondere il compagno, e attraverso la tecnica della psicoanalisi deciderà di aiutarlo a ritrovare la memoria perduta, cercando di fare luce sulla sparizione del vero primario della clinica.

Forte di una solida sceneggiatura e di due interpreti di ottimo livello (ma a dire il vero troppo inespressivi e statuari a detta dello stesso regista), Hitchcock firma quello che può essere considerato a tutti gli effetti come il suo film più fosco e allucinato, anticipando le atmosfere ansiogene de La donna che visse due volte (1958). Io ti salverò è una pellicola che racconta di una (apparentemente) semplice storia d'amore fra un medico e il suo paziente sconfinando presto nei territori onirici della psiche umana, un terreno fatto di ossessioni e di suggestioni simboliche che devono essere interpretate per permettere la catarsi liberatoria dei personaggi e svelare finalmente il mistero di fondo. Gregory Peck per l'appunto soffre di un'amnesia che lo rende un perfetto John Doe, un signor nessuno senza passato che costituisce un vero dilemma ambulante, il tutto condito con una misteriosa e perturbante ossessione che lo colpisce nel momento in cui ha a che fare con il colore bianco e le superfici a righe, particolari che vedremo essere collegati direttamente al segreto recondito che nasconde la chiave di lettura dell'intero lungometraggio.

La fotografia di George Barnes contribuisce a dare alla vicenda un taglio realistico e al tempo stesso nebuloso e onirico, anche se in realtà Hitchcock rimproverò un'illuminazione eccessivamente chiara e diffusa che, a suo dire, rendeva la vicenda meno sconvolgente e traumatica, mentre le splendide musiche di Miklòs Ròzsa (che valsero il premio Oscar al compositore nel 1946) creano un'atmosfera che mina le nostre certezze grazie all'alternanza fra una classica partitura melodrammatica e un uso sperimentale del theremin.

Perdonando alcune chiare incongruenze di sceneggiatura, come ad esempio l'improbabile guarigione totale dall'amnesia del protagonista, il pubblico e la critica apprezzarono davvero molto lo sforzo di messa in scena dimostrato da Hitchcock, ma più di tutto il successo del film si deve chiaramente ai due attori principali: un ombroso Gregory Peck futura presenza de Il caso Paradine (1947) e Ingrid Bergman. L'attrice svedese senza dubbio mette un forte accento all'intero progetto, prima vera musa hitchcockiana che ritornerà nei successivi Notorious - L'amante perduta (1946) e nello sfortunato Il peccato di Lady Considine (1949).

Altra piccola nota di merito al film è data dalla partecipazione di Michael Chekhov, nipote del celebre Anton Čechov, qui nei panni dell'anziano dottor Alexander Brulov, mentore della giovane Constance. Io ti salverò, anche se considerato non sufficientemente coraggioso ed estremo da un grande estimatore di Hitchcock come François Truffaut, annovera alcune trovate particolarmente riuscite e divenute a merito famose, prima fra tutte la disturbante e simbolica sequenza del sogno di Gregory Peck che venne realizzata grazie alla collaborazione con il pittore surrealista Salvador Dalí, il quale progettò assieme a James Basevi le inquietanti scenografie e una serie di soluzioni che purtroppo non poterono essere tutte quante realizzate a causa della loro natura estrema e per alcune difficoltà tecniche. Nelle intenzioni di Hitchcock e Dalí, infatti, questa parte dell'opera sarebbe dovuta durare circa venti minuti e comprendere fra le altre cose una scena con pianoforti sospesi e addirittura Ingrid Bergman trasformata in una statua di sabbia con le sembianze della dea Diana e completamente ricoperta di formiche.

Interessante inoltre è la scena finale nella quale Constance incastra il vero assassino, il quale decide di suicidarsi con un colpo di pistola: per realizzare tale sequenza, ripresa totalmente dal punto di vista del colpevole, venne usata una enorme mano artificiale che impugnava una rivoltella grande quattro volte il normale, in modo da poter tenere a fuoco anche la Bergman sullo sfondo, concludendo con una rotazione completa della canna della pistola verso lo schermo e lo sparo finale (momento ripreso ed omaggiato da Fritz Lang in quel capolavoro datato 1953 che è Il grande caldo).

Non dimentichiamo poi dei numerosi elementi simbolici presenti all'interno della pellicola, come per l'appunto le ossessioni del protagonista, le quali richiedono una puntuale e forse un po' pedante interpretazione secondo i dettami più puri e didascalici della psicoanalisi accademica, materia che all'epoca appassionava molto coloro che si interessavano di teorie sulla criminalità.

Infine, malgrado come già detto la non particolare soddisfazione nei confronti delle prestazioni attoriali e alcune resistenze da parte del produttore, Hitchcock riuscì a realizzare un ottimo film ricco di mistero e di atmosfere coinvolgenti, solo parzialmente intaccate dalla inevitabile sottotrama amorosa che coinvolge i due protagonisti, mettendo in atto un prodotto che, in linea con le proprie tematiche di riferimento, mantiene inalterato il suo fascino anche dopo settant'anni dalla sua realizzazione. Un'opera descritta dal regista stesso con l'ironico autocritico epiteto di "una storia di caccia all'uomo, presentata qui in un involucro di pseudo-psicanalisi".


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