A breve uscirà il terzo capitolo della serie diretta da Wilson Yip: Ip Man III, per l’appunto. Ecco un breve riassunto dei due capitoli precedenti.
Ip Man è invincibile. Stop.
La cosa che più si apprezza del dittico, come in buona parte dei buoni film di arti marziali, sono le scenografie, le coreografie e il montaggio, quest’ultimo davvero in grado di fare la differenza quando qualcos’altro manca di originalità. Anche la profondità della sceneggiatura e dei personaggi, però, sono requisiti fondamentali affinchè il film non risulti una semplice sequenza di botte da orbi. Possiamo affermare che Ip Man I e II rispettano con discreto zelo questi principi: solo il montaggio del primo episodio appare in qualche occasione – titoli di testa compresi – un po’ ingenuo e troppo simile ai videogiochi cosiddetti picchiaduro dei primi anni ’90 (Tekken 2 e 3, per intenderci). Ma possiamo sorvolare perché sebbene la trama di un film di arti marziali sia praticamente sempre la stessa, e Ip Man non fa eccezione, è nei dettagli che bisogna indagare.
The Grandmaster, quello di Wong Kar-wai, puntava sulle luci cupe e su un alone di malinconia che raramente si scorge in questi ambienti, permeati come sono di sentimenti più netti. Wilson Ip, invece, si affida a un personaggio che domina su tutti gli altri, Ip Man (Donnie Yen), ma che con la sua discrezione, la sua pazienza e la sua silenziosa ricerca della perfezione non ruba spazio a nessuno. Quello che potrebbe essere un grosso difetto di sceneggiatura, cioè il fatto che Ip non viene mai sconfitto direttamente, diventa leitmotiv: gli ostacoli ci sono comunque e forse sono anche più ardui da superare, come le vendette trasversali mafiose. Te la prendi di più se colpiscono un tuo caro, piuttosto che se vengono direttamente a cercare te. Tutto ciò è possibile anche grazie a dei solidi personaggi secondari che, sebbene non abbiano una riserva di battute formidabile, sono disegnati a tutto tondo e sono interdipendenti, non delle semplici funzioni narrative piazzate qua e là per sviluppare la storia.
Solo in una circostanza c’è un conflitto troppo netto – che comunque non c’impedisce di affezionarci al film, e poi le arti marziali sono una figata e basta – e riguarda il secondo capitolo della saga: il boxeur inglese, ritratto in modo stereotipato – magari anche vicino alla realtà – ma irritante nella sua recitazione troppo enfatica. Le mazzate che prende se le merita tutte e stupisce anche il fatto che non perda già dal primo combattimento, presuntuoso e ignorante com’è. Un avversario migliore, però, avrebbe reso ancora migliore anche il protagonista.
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