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Ipazia o della memoria delle donne III

Creato il 30 aprile 2011 da Viadellebelledonne

Ipazia o della memoria delle donne III

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di Daniela Assunta Zini

I lavori di Ipazia ci sono noti attraverso sette lettere la 10, la 15, la 16, la 33 (frammento), la 81, la 124 e la 154.

Dal IV al XVIII secolo, il cristianesimo è ridotto al rango di religione di Stato. Si addice che tutti gli abitanti di un territorio aderiscano alla stessa confessione, tengano per indiscussi pretesi dogmi e si conformino ai riti in vigore: la sanzione dei dissidenti è il rogo.

Si deve rendere tutto a Dio, che trasmette tutto a Cesare.

Gesù di Nazareth, crocifisso in nome della legge romana, nel 30, diviene la cauzione di tutti i poteri, a partire dal 315.

È il Dio dei potenti, il più insidioso di tutti i travestimenti del cristianesimo, la sua perversione radicale. Quella che ha condotto alle guerre di religione, dal XVI al XVII secolo, alla revoca dell’editto di Nantes, alla Shoah e anche alla diffidenza attuale nei confronti dei musulmani, che hanno sostituito gli ebrei come capri espiatori.

Nel VII secolo, Giovanni, vescovo di Nikiu (Nicea), nella sua Cronaca, a differenza dei due testi, precedentemente, citati, dà dell’assassinio di Ipazia una feroce giustificazione:

“A quei tempi apparve una donna filosofa, una pagana di nome Ipazia, che si dedicava completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti musicali e che stregava molte persone con le sue arti demoniache. E il governatore della città la onorava eccessivamente, perché lei, in effetti, lo aveva stregato con la sua magia. Questi cessò di andare in chiesa, come sua abitudine. A eccezione di una volta, in circostanze pericolose. E non solo fece questo, ma attrasse molti credenti a lei e lui stesso ricevette gli increduli nella sua casa.

Un giorno, in cui stavano facendo, allegramente, uno spettacolo teatrale con ballerini, il governatore della città pubblicò un editto riguardante gli spettacoli pubblici nella città di Alessandria. Tutti gli abitanti della città erano riuniti nel teatro.

Cirillo, che era stato nominato patriarca dopo Teofilo, era ansioso di apprendere esattamente il contenuto dell’editto.

Vi era un uomo chiamato Ierace, un cristiano che possedeva comprensione e intelligenza e che era solito dileggiare i pagani. Era un seguace affezionato all’illustre padre, il patriarca, e obbediente ai suoi consigli. Questi era anche molto versato nella fede cristiana.

Ora, questo uomo si era recato al teatro per conoscere i termini dell’editto. Ma quando gli ebrei lo videro nel teatro gridarono e dissero:

“Questo uomo non è venuto con buone intenzioni, ma solo per creare disordine.”

Il prefetto Oreste fu scontento dei figli della Santa Chiesa, e Ierace fu afferrato e sottoposto, pubblicamente, a punizione nel teatro, sebbene fosse, assolutamente, senza colpa alcuna.

Cirillo si irritò con il governatore della città per questo fatto, e anche perché aveva messo a morte Ammonio, un illustre monaco del convento di Pernodj, e altri monaci.

Quando il magistrato principale della città venne informato, si rivolse agli ebrei così:

“Cessate le ostilità contro i cristiani.”

Ma si rifiutarono di dare ascolto a quello che avevano sentito; si vantarono dell’appoggio del prefetto che era dalla loro parte, e così aggiunsero oltraggio a oltraggio e progettarono un massacro in modo infido.

Di notte posero in tutte le strade della città alcuni uomini, mentre altri gridavano e dicevano:

“La chiesa dell’apostolico Atanasio è in fiamme: corrano al soccorso tutti i cristiani.”

E i cristiani,  udendo quelle grida, uscirono fuori del tutto ignari della slealtà degli ebrei. Quando i cristiani si fecero avanti, gli ebrei sorsero e, perfidamente, massacrarono i cristiani e versarono il sangue di molti, sebbene fossero senza colpa alcuna.

Al mattino, quando i cristiani sopravvissuti sentirono del malvagio atto compiuto dagli ebrei contro di loro, si recarono dal patriarca. E i cristiani radunarono tutti. Marciarono in collera verso le sinagoghe degli ebrei e ne presero possesso, le purificarono e le convertirono in chiese. Una di esse venne dedicata a San Giorgio.

Espulsero gli assassini ebrei dalla città. Saccheggiarono tutte le loro proprietà e li derubarono completamente. Il prefetto Oreste non fu in grado di portare loro alcuno aiuto.

Poi, molti credenti si raccolsero guidati da Pietro il magistrato – il quale era, sotto tutti gli aspetti, un perfetto credente di Gesù Cristo – e si accinsero a cercare quella donna pagana che aveva stregato il popolo della città e il prefetto con i suoi sortilegi. E, quando appresero dove fosse, la trovarono seduta e avendola strappata dalla sua lettiga, la trascinarono fino alla grande chiesa chiamata Caesareum. Si era nel giorno del digiuno. Le strapparono le vesti e la trascinarono nelle strade della città, finché morì. La trasportarono in un luogo chiamato Cinarion dove bruciarono il suo corpo. E tutte le persone intorno al patriarca Cirillo lo chiamarono “il nuovo Teofilo”, poiché aveva distrutto gli ultimi fasti dell’idolatria nella città.”

Così si chiude la storia di Ipazia la filosofa, che sarebbe caduta nell’oblio se un autore inglese del XVIII secolo, Edward Gibbon (1737-1794), che effettuava ricerche in Vaticano sulla decadenza dell’impero romano, non ne avesse trovato traccia nella Storia ecclesiastica di Socrate lo scolastico.

Così è trascorsa questa vita platonica.

I secoli passano e si consuma il mondo, ma la sua anima è sempre giovane; veglia tra le stelle, nella notte dei tempi.

Come scrive, magnificamente, Charles Marie Lecomte de Lisle, nei suoi Poèmes antiques (Poemi antichi), quando evoca la vita di Ipazia e il suo tragico destino:

Elle seule survit, immuable, éternelle.
La mort peut disperser les univers tremblants,
Mais la Beauté flamboie, et tout renaît en elle,
Et les mondes encor roulent sous ses pieds blancs!

Ella sola sopravvive, immutabile, eterna.
La morte può disperdere gli universi vacillanti,
Ma la Bellezza risplende, e tutto rinasce in lei,
E i mondi ancora ruotano sotto i suoi bianchi piedi!

Ipazia è entrata nella storia per la sua erudizione, per la sua bellezza e per la sua castità, ma soprattutto per la sua fine drammatica che ha fatto di lei una icona del libero pensiero, vittima delle forze oscurantiste. Liberiamoci, di fronte a questa donna eccezionale, delle forme in cui viene racchiuso Dio. Più ci eleviamo, più dominiamo le nostre credenze. Poco importa ciò che si crede, tutto dipende dal modo in cui si crede.

Ammoniva il riformatore Sébastien Castellion, discepolo di Jean Calvin, divenuto suo avversario dopo l’Affaire Servet:

“Uccidere un uomo, non è difendere una idea, è uccidere un uomo.”

Se Ipazia fosse stata uomo, l’avrebbero solamente uccisa. Essendo donna, dovevano farla a pezzi, in una cattedrale cristiana, per rendere quel massacro simbolico di un sacrificio. Per escludere, nel cammino dei secoli a venire, metà del genere umano.

Ogni paese può rivelarsi una nuova Alessandria.

Quando una cultura dominante, utilizzata da una istituzione o da un potere, serve una verità prestabilita, il rischio è di mantenere sotto il moggio episodi come il linciaggio di Ipazia, i mille e uno “misfatti”, commessi sotto il mantello delle verità ufficiali.

La storia non fa sovente allusione alle donne di scienza.

La storia non accorda alle donne che un posto minimo, anche quando hanno svolto un ruolo di primo piano.

E, tuttavia, sono le Dee, sapienti, delle civiltà antiche quali Iside o Atena che, secondo i miti, hanno trasmesso agli uomini l’arte di navigare, di costruire navi…

Nel suo libro Hypatia of Alexandria, mathematician and martyr (Ipazia di Alessandria, matematica e martire), Michael Deakin scrive:

“Quasi da sola, praticamente l’ultima accademica, si affermò per i valori intellettuali, per la matematica rigorosa, il neoplatonismo ascetico, il ruolo cruciale della mente, la voce della temperanza e la moderazione nella vita civile.”

Tutte le donne martirizzate e disprezzate non sono tutte matematiche.

Non sono tutte filosofe o astronome di talento.

Non somigliano tutte alla “sublime” Ipazia di Alessandria che coniugava bellezza, generosità e intelligenza.

Ma sono tutte sue sorelle minori:

Anastassia Baburova,

Anna Frank,

Anna Kuliscioff,

Anna Politkovskaja,

Artemisia Gentileschi,

Aung San Suu Kyi,

Carla Capponi,

Diane Fossey,

Edith Stein,

Emily Davison,

Fania Fénelon,

Gina Galeotti Bianchi,

Giovanna d’Arco,

Ilaria Alpi,

Irina Khalip,

Indira Gandhi,

Liliana Segre,

Mafalda di Savoia,

Malalai Kakar,

Marisa Musu,

Meena Keshvar Kamal,

Milena Jesenská-Polak,

Nadia Anjuman,

Narges Mohammadi,

Nasrin Sotoudeh,

Natalya Estemirova,

Neda Aqa Soltan,

Oksana Chelyscheva,

Olympe de Gouges,

Rigoberta Menchú,

Rosa Luxemburg,

Shadi Sadr,

Shirin Ebadi,

Simone Veil,

Soheila Ghadiri,

Tahereh Qurratu’l-Ayn,

Tahmineh Mousavi,

Taisija Osipova

Uma Singh,

Zahra Rahnavard,

Zarema Sadulayeva,

e le milioni di donne senza nome che vengono picchiate, aggredite, stuprate, mutilate, assassinate, in qualche modo, private del diritto dell’esistenza stessa, per il fatto di essere donne.

Ipazia ci insegna che la via della ragione – la via dell’esperienza personale non mediata da altri, la ricerca continua della verità sulla nostra vita, verità che racchiude corpo, mente, universo – è la via cui ogni essere umano ha diritto.

Una verità che, come sapeva Ipazia, si può raggiungere solo e sempre parzialmente nel tempo e nello spazio.

Totus sed non totaliter!

Ipazia resta, molto stranamente, nostra contemporanea, nostra amica.

Avvolta nel suo tribon, cammina con noi.

Queste poche pagine hanno l’ambizione di riporre Ipazia nel suo contesto sociale, politico e culturale e rompere il non-detto che ha, lungamente, regnato sulle donne.

Grazie per averle condivise con me!



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