Stava andando in bicicletta a Muritke, il suo villaggio. Venne ucciso dagli uomini della mafia dei tappeti, perché aveva avuto il coraggio di denunciare lo sfruttamento dei bambini che avviene nel suo paese.
Ribellatosi alla sua condizione di schiavo bambino, costretto a lavorare incatenato a un telaio, per quattordici ore al giorno, con lo stipendio pari ad una sola rupia, pochi centesimi di euro, quando venne assassinato aveva solo dodici anni.
Venne venduto dai suoi genitori per sedici dollari ad una fabbrica di tappeti quando aveva solo quattro anni. Cominciò subito a lavorare per tredici ore al giorno. Dicono in Pakistan che i bambini hanno mani piccole e veloci e sono l’ideale per lavorare ai telai. E poi i bambini non scioperano, non protestano, non parlano. In Pakistan solo un ragazzo su dieci va a scuola.
Era rimasto incatenato al telaio fino ai dieci anni, fin quando incontrò Ehsan Ullah Khan, presidente del Fronte di liberazione dal lavoro forzato in Pakistan, che lo prese con sè. Iqbal si battè non solo per la sua “liberazione” ma anche per quella di tutti i suoi “colleghi” e divenne così un punto di riferimento per i sei milioni di bambini pakistani sfruttati ed offesi. Il suo impegno per i villaggi del Punjab lo rese coraggioso, agli occhi degli altri.
Troppo coraggioso per i proprietari delle fabbriche.
Le sue denunce avevano costretto le autorità pakistane a far chiudere decine di fabbriche di tappeti nella provincia di Lahore. Poi portò la sua testimonianza in altri paesi asiatici, in Occidente, negli Stati Uniti.
Nel 1994 a Boston aveva ricevuto una borsa di studio ed il suo obiettivo era quello di continuare la lotta per difendere i bambini lavoratori diventando un avvocato.
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