Verrebbe da dire…solo in Iran…Ci spieghiamo meglio: ieri l’agenzia stampa Mehr News ha pubblicato un interessante articolo in merito all’altissimo livello di giovani donne che abusano di droge nella Repubblica Islamica. I dati, per la cronaca, venivano forniti direttamente dalla bocca di Zahra Bonyanian, Vice Segretario Generale del Dipartimento per il Controllo della Droga tra le Donne e nelle Famiglie. La rappresentante del regime, è stata costretta ad ammettere che il numero di donne iraniane che fanno uso di sostanze stupefacenti è drammaticamente aumentato e colpisce tutte le classi sociali, indipendentemente dal loro status economico. La Signora Bonyanian, quindi, ha rivelato che l’età in cui le donne in Iran cominciano a drogarsi è scesa a 15 anni e che, coloro che hanno tra i 20 e i 35 anni, rappresentano la fascia d’età più colpita dall’abuso di droge (in pratica coloro che dovrebbero essere lavorativamente più attive.
Dopo aver spiegato quali sono le droge maggiormente usate dalle donne iraniane (oppio, cocaina e crack afgano in testa), il giornalista di Mehr News chiede al Vice Segretario Bonyanian una spiegazione di questo terribile fenomeno che colpisce la Repubblica Islamica. Bene, la risposta lascia a dir poco stupefatti: secondo la rappresentante del regime, l’aumento dell’uso di droge da parte delle donne iraniane andrebbe fatto coincidere con il fascino generato nel gentil sesso dalle “TV satellitari, in particolare da quei programmi che si propongono pillole per combattere l’obesità o proteggere la pelle…”
Proprio non viene in mente a Zahra Bonyanian che, quanto sta accadendo alle donne iraniane, sia direttamento frutto di quella che il dissidente Akbar Ganji ha definito una vera e propria “apartheid di genere“. Le donne iraniane, infatti, sono legalmente considerate inferiori, praticamente valgono metà di un uomo. Nella società, come noto, le donne iraniane sono costrette portare il velo e non avere pubblici contatti “moralmente riprovevoli” con l’altro sesso (ovvero stare a contatto solamente con padri e mariti). All’interno della famiglia, poi, la donna non può ottenere un passaporto o lasciare il Paese senza il consenso del padre o del marito. Nei casi di crisi matrimoniale, quindi, le possibilità delle donne di ottenere il divorzio o l’affidamento dei figli senza il consenso dell’uomo sono praticamente minime. Nel mondo del lavoro, infine, ad una donna è proibito lavorare fuori di casa senza il consenso del marito ed è praticamente impossibile guadagnare quanto un suo pari di sesso maschile.
Proprio per promuovere i diritte delle donne è nata la famosa campagna “One Million Signature” anche nota come “change for equality“. L’eco di questa lotta delle donne iraniane, ha raggiunto tutto il mondo e provocato la veemente reazione del regime. In pochi anni, infatti, gli Ayatollah hanno ordinato la carcerazione di coraggiose attiviste come Deleram Ali, Fariba Davoodi Mohajer, Noushin Ahmadi Khorasani, Parvin Ardalan, Shahla Entesari, Sussan Tahmasebi, Azadeh Forghani, Esha Momeni e Bahareh Hedayat. Tra le sostenitrici della lotta civile, quindi, va annoverato anche il Premio Nobel Shirin Ebadi, costretta dal regime a lasciare l’Iran per andare a vivere a Londra.
Ben si capisce, perciò, che il vero problema delle donne iraniane è il regime che le perseguita e le umilia costantemente. Un sistema di controllo, che nega a tutto il popolo – minoranze in testa – ogni aspirazione di libertà. E’ per questo che, accoratamente, ci appelliamo al Ministro della Giustizia italiana Anna Maria Cancellieri, affinchè non intensifichi la collaborazione legale con la Repubblica Islamica. L’Italia, la cui Costituzione è stata scritta con il sangue di coloro che lottarono per la fine del nazifascismo, non può e non deve assimilare nulla dei principi legali che governano la repubblica Islamica. Al contrario, riteniamo che tutto il mondo democratico, debba rifiutare di stringere la mano a terroristi che approvano quotidinamente decine di condanne a morte, pubbliche umiliazioni e discriminazioni di ogni genere.