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Quando l'Iran afferma che chiudere lo strategico stretto di Ormuz è un compito facile non sta bleffando. In fin dei conti si tratta di un collo di bottiglia di non più di tre Km di larghezza, con acque di sufficiente profondità da permettere di essere oltrepassato dalle enormi navi che trasportano gli idrocarburi dal Golfo a tutto il pianeta. Basta quindi affondare mezza dozina di grandi navi per bloccarlo.
Un'altra cosa molto diversa è che l'Iran possa assumersi le conseguenze di una azione tale. Da una parte, perché, senza la libertà di traffico in quelle acque, l'Iran sarebbe la più colpita, visto che la maggior parte dei suoi introiti deriva dalla vendita di idrocarburi e non dispone di vie alternative per farli arrivare ai suoi compratori. Ricordiamo che gli iraniani stanno già subendo gli effetti delle quattro serie di sanzioni imposte dall'ONU, con una popolazione in cui il malcontento cresce e con un regime travagliasto da lotte interne. inoltre, un blocco marittimo in acque internazionali provocherebbe sicuramente un intervento militare internazionale nel quale l'Iran ha tutte le possibilità di perdere.
Analizzando i fatti, sembra chiaro che ne uno ne l'altro (forse con l'eccezione di Israele) desiderano realmente questo conflitto. Di conseguenza, bisogna immaginare che l'Iran continuerà a preoccupare per mantenere attivi tutti i suoi giochi di ritorsione per evitare la caduta del regime, mentre cercherà di consolidarsi come Paese dominatore della regione.
Dall'altra parte, alla comunità internazionale (gli USA in primis) rimane solo che inasprire le sanzioni economiche. Washington ha appena imposto la proibizione di importare petrolio e gas iraniano e ha bloccato le operazioni con gli enti bancari di questo paese.
Dobbiamo supporre che l'Unione Europea farà il suo e non sembra folle che altri compratori adottino una decisione simile.
Questa opzione presenta però rischi molto vistosi, visto che l'uscita (parziale) dell'Iran dal mercato può provocare una caduta dell'offerta petrolifera che finirebbe per essere vantaggiosa allo stesso Iran, per ottenere uguali o più profitti dalla vendita del petrolio che riuscirebbe a collocare nel mercato.
A questo, bisogna aggiungere che l'effetto negativo porterebbe all'aumento dei prezzi nel contesto della crisi economica mondiale. Visto in questo modo, non solo è di vitale importanza ottenere che i principali importatori di greggio iraniano sottostiano ai provvedimenti (e così si spererebbe dalla Corea del Sud e dal Giappone, ma non dalla Cina e dell'India) ma, simultaneamente, l'Arabia Saudita e altri produttori si impegnino ad aumentare l'estrazione dai suoi pozzi. Dunque, molti tasti da suonare in uno strumento che nessuno padroneggia totalmente.
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