Pubblicato da Federico Di Gioia il 23 febbraio 2012 · Lascia un commento
Un posto di blocco della polizia irachena - da thestar.com
Da International Business Times
La capitale irachena e altre città del Paese sono state scosse stamattina da una serie di attentati che hanno portato alla morte di almeno 50 persone e al ferimento di diverse centinaia. Gli obiettivi presi di mira sono stati principalmente luoghi o distretti sciiti e le forze di polizia locali. A Baghdad una forte esplosione ha coinvolto un checkpoint della polizia nel distretto di Karrada, nella parte centrale della città, mentre a nord un’autobomba ha colpito l’area di al Kadhimiya. Sempre a Baghdad un altro checkpoint nei pressi del ponte Sarrafiya è stato attaccato da uomini armati pistole con silenziatori. Anche le aeree urbane di Hilla, Tikrit e Kirkuk sono state oggetto di attentati, così come villaggi nelle province di Salahudin, Babilonia, Ninewa, Diyala e Anbar, per un totale, rende noto il ministero dell’Interno iracheno, di 22 attacchi in 19 luoghi diversi. Quella di oggi è stata la giornata più sanguinosa dal 14 gennaio scorso, quando 53 pellegrini, sempre sciiti, persero la vita in un attentato vicino a Bassora.
La violenza in Iraq è aumentata notevolmente da quando le truppe americane si sono ritirate dal Paese a dicembre e la crisi politica che sta infiammando Baghdad non aiuta certo a mantenere stabilità e sicurezza. Le tensioni tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita sembrano non riuscire a trovare una via di normalizzazione. Il primo ministro sciita, Nouri al Maliki, ha favorito a fine gennaio una sentenza della magistratura irachena emessa nei confronti del vice presidente Tariq al Hashimi, di professione sunnita, il quale, minacciato d’arresto con l’accusa di aver orchestrato degli attacchi contro obiettivi sciiti, si è rifugiato nella regione autonoma del Kurdistan. Ad al Maliki non è bastato questo e ha presentato un voto di sfiducia al parlamento contro il vice primo ministro Saleh al Mutlaq, sempre sunnita e anche lui dirigente del partito Iraqiya, principale formazione politica della componente sunnita irachena. Proprio i deputati e i ministri di Iraqiya, in segno di protesta, avevano deciso di boicottare il Parlamento e l’azione di governo. Se i deputati hanno poi ripreso il loro posto, i ministri hanno, invece, continuato a non partecipare agli incontri con al Maliki.
La composizione del parlamento iracheno - da bbc.co.uk
Il partito Iraqiya rappresenta, stando alle ultime elezioni del 2010, la maggioranza, seppur risicata, degli elettori. Con il 24,72% la formazione politica sunnita aveva battuto di pochi voti il 24,22% degli sciiti della State of Law Coalition (di Nouri al Maliki) e superato anche l’altro grande partito sciita, la National Iraq Alliance ferma al 18,15%. Anche la componente curda, terza etnia del Paese, ha avuto, con il presidente Jalal Talabani, la sua rappresentanza, di nome e di fatto considerando che i loro numeri in parlamento non possono competere con quelli delle altre due comunità e che, essendo l’Iraq una repubblica parlamentare, il presidente ha, per l’appunto, una funzione di rappresentanza. I curdi hanno, però, un’importanza strategica fondamentale per lo sfruttamento delle risorse energetiche irachene, presenti in gran parte del territorio della regione autonoma del Kurdistan.
La ripartizione delle cariche istituzionali su base etnica e settaria prevista dalla costituzione post Saddam Hussein e voluta proprio per favorire una pacificazione tra le differenti componenti del Paese, ha avuto, invece, esattamente l’effetto opposto. L’Iraq che gli Stati Uniti speravano di aver liberato da un dittatore e nel quale volevano instillare il seme della democrazia, si è ritrovato con un governo debole, frazionato e influenzabile. L’Iran, ad esempio, non ha dovuto fare molto per allungare la sua mano sulla popolazione sciita, a lungo tenuta sotto il giogo del partito sunnita Baath di Saddam. In questo momento la situazione è a dir poco esplosiva e il ritiro delle truppe statunitensi ha accelerato il processo di disgregazione di un Paese di per sé diviso e a forte rischio di balcanizzazione.
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