di Giuseppe Leuzzi. Opera postuma, titolata anche “I doni della vita”. Una storia della Francia profonda, come usava dirla in rapporto a Parigi, di continuità e odi familiari, attaccata ai beni di questo mondo, anzi arcigna, attraverso le due guerre e tre generazioni del Novecento. Col lieto fine ma con brutti presentimenti. È la prova generale di “Suite francese”, alla quale Némirovsky lavorava contemporaneamente, nel 1941-42, sfollata con la famiglia nella campagna occupata dai tedeschi, che anch’essa avrebbe dovuto avere il lieto fine. Ma fu interrotta dalla denuncia, anonima ma insistita, della scrittrice in quanto ebrea alle autorità tedesche, che le costrinse a internarla, e quindi a destinarla alla morte, a Auschwitz.
È – più che in “Suite francese” – la caduta delle illusioni, di questa francese d’adozione: sociali, nazionali (la borghesia indomabile, ma feroce), personali, di mentalità e di caratteri. Vissute come si sa intimamente, oltre che gestite, dalla scrittrice. La Francia, che era sempre stata un porto di elezione, e nella provincia anche più che a Parigi, è qui luogo iperfrancese ma di piccinerie e risentimenti. Fin nell’amore, il giorno stesso del matrimonio d’amore. Tra obblighi insulsi, familiari, paesani, di classe, vezzi egoisti, cattivi, ciechi, in orizzonti ristretti e ristrettissimi. Un’opera consapevole, dei guasti della guerra in corso come di quelli della prima grande guerra. Irène Némirosky è forse la scrittrice francese tra le due guerre che, dopo Céline, ebbe più acuto il senso della catastrofe incombente.
È tuttavia un’opera volutamente ottimistica. Per atto di fede, da neo francese, e anche da neo catecumena. Interpolate sono qui pagine commoventi di fede cristiana, che non può essere che sincera. I due titoli di lavorazione sono evangelici. Némirovsky, battezzata in prossimità della tempesta antiebraica, è sospettata di opportunismo, da una parte e dall’altra. E in qualche modo anche dalle due figlie, che le sopravvissero protette dalle monache. Qui non professa, come negli “Appunti” sparsi, il rifiuto di un “destino comunitario”, semplicemente si proietta in un’altra cultura – apocalittica (i due titoli sono presi dal vangelo di Giovanni) ma non senza speranza.
Scrittura sentimentale si vuole la sua, ma è piuttosto secca, anche qui, alla Balzac. Una Balzac si direbbe piuttosto dei sentimenti invece che delle cose, affari, politica, istituzioni, relazioni e regole sociali. Dalle quali peraltro non rifugge, con una conoscenza o sensibilità di prima mano – la sua non è una scrittura “femminile” come opinano i suoi biografi Philipponnat e Lienhardt. Francesi o ebrei (le due categorie si distinguono), i suoi personaggi sono tratteggiati col distanziometro, e con occhio tanto critico quanto interessato, personalmente toccato. Senza intimità con i personaggi che crea – se non in “Suite francese”, presagio di morte. Di “compassione impietosa”, la disse Henri de Régnier, un ossimoro che la riassume bene: un miscuglio di ironia e partecipazione. Che lei stessa in qualche modo rivendicherà nella “Suite”, dicendosi di “spirito dickensiano” – balzacchiano sarebbe meglio.
Irène Némirovsky, I beni di questo mondo, Editori Internazionali Riuniti, reminders, pp. 234 € 7,50