La triste contentezza degli Irlandesi
La signora McKessy, di Limerick, Irlanda, appena arrivata a New York con 10 dei suoi 21 figli,nel marzo del 1926.
By JOHN BANVILLE
Dublino.
In un ricordo di quand’ ero piccolo, sempre che si tratti di una vero e proprio ricordo, sono stato preso in carica un pomeriggio d’inverno un pò fumoso da mio zio Tom a Rosslare Harbor ,una baia, a circa 10 miglia dalla nostra città di Wexford nell’angolo sud-est dell’Irlanda. Erano i primi anni 1950, e avrò avuto 6 o 7 anni. Al molo del porto, il traghetto per la Gran Bretagna si stava preparando a partire. La memoria cambia di prospettiva, e la nave ricordo che sembrava fosse grande come un transatlantico, il fianco a picco lungo il molo, la sua possente ciminiera sbuffante grandi cumuli grigi e la sua sirena che agitanva l’aria con dei profondi muggiti.
Sospetto addirittura che siano fatti improbabili, come cioè,che ciò che sto ora menzionando non sia un mio ricordo, ma un frammento esagerato raccolto dai ricordi della gente. Per quello che vedo,sembra ci siano un numero incredibilmente vasto di madri piangenti e padri smunti dal dolore, che danno l’addio ad una serie di giovani, ognuno con una valigia di cartone in mano , che erano in procinto di salire a bordo della nave, diretti a Londra, Birmingham, Coventry, per cercare lavoro durante la ricostruzione postbellica della Gran Bretagna.
Forse invece non m’inganno. Decine di migliaia di giovani uomini e donne han dovuto lasciare l’Irlanda in quegli anni.Noi eravamo rimasti neutrali durante la guerra, e quindi avevamo perso buona parte della generosità del Piano Marshall. La nostra economia era basata quasi esclusivamente sull’agricoltura, e molte famiglie disperate resistevano con le poche sterline o i pochi dollari mandati a casa settimanalmente dai figli e le figlie in esilio.
Oggi, gli irlandesi della mia generazione hanno un chiaro senso di déjà vu.Già conosciuto,già visto,ripetuto.
Decine di migliaia di persone hanno lasciato l’Irlanda di nuovo già solo durante l’anno. I tempi di boom della Tigre celtica se ne sono già andati, e quegli anni da vacche grasse degli anni ’90 e gli inizi del 2000, la prima volta nella nostra storia, quando abbiamo capito cosa voleva dire essere ricchi, hanno lasciato il posto ad una ritirata, con debiti, austerità e, ancora una volta, emigrazione. Non c’è quasi una persona che qui non sia stata colpita.
La sbornia falsa che gli anni d’abbondanza ci han lasciato, è la peggiore che abbiamo mai sofferto - la peggiore, ma non la prima. E se ci fosse mai un popolo che ha saputo gestire bene i postumi di una sbornia, sicuramente siamo noi.
La memoria irlandese è lunga, ed intristita di amarezze.
Il paese ha subito ripetute ondate di emigrazione, in gran parte obbligatorie, sin dai tempi di Cromwell nel 17°secolo, quando le forze inglesi sconfissero l’esercito dell’aristocrazia irlandese facendo massacri e spinse i suoi leaders in esilio. Dopo la disastrosa sollevazione del 1798 e per tutto il secolo che seguì , migliaia di coloro che al giorno d’oggi son chiamati combattenti per la libertà furono deportati come ribelli dagli inglesi nelle colonie penali dell’Australia.
Nel 1840 – gli anni neri, come si chiama questo decennio -la popolazione irlandese è stata disastrosamente massacrata dalla carestia** e dalla partenza in massa degli affamati e dagli indigenti che andavano oltre oceano, le navi che portavano gli emigranti in America erano note e con buona ragione, come navi pattumiera.**(dovuta ad una malattia della patata,morirono di fame e di stenti in massa..in Irlanda…)( a.)vedi sotto tra le note.
La poesia violenta del commiato è radicata nella coscienza irlandese. Una volta ho letto il racconto di un addio negli anni neri del 1840 tra un giovane che partiva verso l’America e suo padre. I due uomini si fissavano negli occhi,con lo sguardo impietrito dal dolore,mentre le donne piangevano.
Molto è cambiato da allora, naturalmente.
I giovani che lasciano l’Irlanda oggi non sono più come i ribelli del 1798, cui gli inglesi mettevano delle brocche piene di pece bollente in testa da tenere con le mani,o gli affamati degli anni neri del 1840 od i giovani con le valigie di cartone come su quel traghetto del 1950. Sono ben istruiti e, per la maggior parte della classe media – operatori elettronici, ingegneri, operai edili, in cerca di un lavoro che non è più possibile avere qui da noi. In una variante triste,ci son molti tra gli immigrati stessi che ora se ne vanno- muratori polacchi, elettricisti cechi,idraulici rumeni che son venuti durante la bolla edile degli anni della Tigre celtica ed ora traslocano a Londra per lavorare alla costruzione del Villaggio Olimpico.
Ai vecchi tempi,gli emigranti a volte non rivedevano più i loro cari. Uno dei risultati più strazianti delle partenze di massa degli anni 1950 sono l’invecchiamento tra gli irlandesi soli ed indigenti, che vivono senza più amici e che hanno perso le famiglie andate ad urbanizzare quell’Inghilterra che molti di loro hanno contribuito a ricostruire dopo la guerra. Ma ora gli emigrati hanno meno probabilità di dimenticare ed essere dimenticati.
Voli low cost e tecnologie delle comunicazioni significano poter tornare a casa dal lato opposto del mondo, anche se solo virtualmente, tutte le volte che lo desiderano.
Una delle maggiori differenze con il resto degli altri paesi è che l’Irlanda è considerata ora il Bravo Ragazzo dell’Europa, un fulgido esempio di ritrovata rettitudine fiscale rispetto a come i prudenti paesi del nord Europa guardano ai greci,portoghesi, spagnoli e italiani visti come degli spendaccioni.
Questa è una posizione nuova per noi. E ‘come se il fannullone che era solito nascondersi a sognare ad occhi aperti nei banchi al fondo della classe sia stato avanzato di grado dal presidente Nicolas Sarkozy e dalla Cancelliera di ferro tedesca per essere premiato con una medaglia e la pergamena.
Il nostro soccorso più efficace, tuttavia, risiede in ciò che non è cambiato affatto: la nostra allegria persistentemente triste. Si potrebbe dire, come fanno alcuni, che noi irlandesi siamo congenitamente masochisti, e che segretamente diamo il benvenuto alla sventura. Ma non è che ci si senta così. Piuttosto, abbiamo sempre avuto una propensione a ridere di noi stessi, il che ci permette di conservare una buona reputazione di questi tempi tristi, quando il riso, anche quello auto-ironico, è divenuto assai costoso.
Ma la risata non può portarsi via anche i ricordi.
Qui, dal reparto triste,ce n’ è un altro da tirar fuori. E’ durante la torrida estate del 1969, e sto vivendo a Londra. Passeggiando per Hyde Park, un pomeriggio di domenica ho sentito, vagamente, un suono familiare. In un primo momento non riesco a identificarlo, poi faccio: ma è il coriaceo schiocco di un bastone da hurling che colpisce una palla. Il Hurling, unitamente al calcio gaelico, è il gioco nazionale d’Irlanda, ma è molto veloce, e devi esser bravo per giocarlo, mentre a guardarlo con un occhio profano,può sembrare ad una vera e propria battaglia fra due bande di guerrieri agili, rapidi e molto arrabbiati armati di mazze di legno da battaglia.
Mi fermo, e scruto il tappeto erboso, e vedo, in lontananza, in una radura che spunta lungo due file di alberi, un paio di giovani in maniche di camicia, uno ad ogni estremo del campo erboso,che colpiscono una palla,poi uno che si butta contro l’altro, di corsa, da un capo all’altro del prato, e il mio cuore è trafitto da questa immagine del desiderio, della solitudine, di questa quintessenza di nostalgia nel vasto mondo dell’ esilio.
(a) http://www.irlanda.cc/la-grande-carestia-irlandese.html
John Banville è l’autore di “The Sea” e, più recentemente, “The Infinities”.
http://www.nytimes.com/2011/12/18/opinion/sunday/irelands-diaspora-yet-again.html?_r=2