“SEVENTH SON OF SEVENTH SON” 1988 IRON MAIDEN
“Seventh son of a seventh son” esce nell'aprile del 1988 e raggiunge subito la posizione numero uno nel Regno Unito, mentre negli U.S.A. arriva alla dodicesima. Il disco rappresenterà un grande successo per il gruppo vendendo complessivamente dodici milioni di copie. Rappresenta a mio modo di vedere il capolavoro della “vergine di ferro”, perché incarna nelle sue tracce massicce influenze progressive, senza però mai abbandonare le tipiche sonorità della band londinese. Per la prima volta in carriera il gruppo decide di utilizzare tastiere e sintetizzatori per incidere un album, e il risultato è semplicemente esplosivo; mi sento di dire che questo disco è uno dei primi veri esempi di prog metal, genere che verrà poi sviluppato e definito grazie a band come Dream Theater (che nel 1992 partoriranno il magnifico “Images and words”), Queensryche (con il concept “Operation Mindcrime”) e Fates warning (Perfect Simmetry). Seventh Son è il primo e unico concept album dei Maiden. Harris si ispirò all'epoca al romanzo di Orson Scott Card che parla di un bambino fittizio dotato di poteri psichici. L'album tocca tematiche quali la reincarnazione, il misticismo, la psiche e le visioni profetiche. La copertina è l'ennesimo capolavoro di Derck Riggs; essa raffigura Eddie con la sola parte superiore del corpo raffigurata nell'atto di reggere un feto piangente che rappresenta il settimo figlio, il tutto in un’atmosfera da mondo glaciale, veramente suggestivo, con iceberg modellati a varie forme della mascotte del gruppo. L'album inizia con un intro di chitarra acustica accompagnato dalla meravigliosa voce di Dickinson e pochi istanti dopo esplode “Moonchild”, la prima traccia, con un accompagnamento di tastiere da brividi. La seconda canzone, “Infinite Dreams”, è a mio giudizio la gemma dell'album: parte lenta e soave fino ad arrivare ad un tripudio di potenza ed esplosività strumentale; il terzo tassello è il vendutissimo singolo “Can I play with madness”; segue al quarto posto la splendida “The Evil That Men Do”: indimenticabile è infatti il travolgente e anche malinconico riff che la apre ed il fantastico ritornello che anche adesso mentre scrivo mi ritorna in mente. La seconda parte del disco inizia con la title track, il brano più lungo e progressive dell'opera. Con la potente apertura di tastiere il brano è un meraviglioso viaggio tutto da scoprire, con frequenti cambiamenti di tempo; segue “The prophecy”, forse l'unico pezzo dell'album un pò sottotono rispetto agli altri. La numero sette, “The clairvoyant”, è uno dei cavalli di battaglia dei Maiden, con l'incredibile intro di Harris, fino ad arrivare alla velocità epica del brano accompagnata dalla voce aggressiva di Bruce. Chiude “Only The Good Die Young”, una tipica cavalcata maideniana che si chiude con l'intro iniziale quasi a dire che alla fine di un lungo viaggio c'è sempre la strada del ritorno da intraprendere
Ascoltiamo l’album intero: