Per me bambina is animeddas (dette anche panixeddas, mortu mortu, su prugadòriu, su bene de is animas, su peticoccone) erano il pane’è saba fatto in casa, le pabassine, la frutta secca, l’alloro, il tour al cimitero e quei lumicini che nonna accendeva per settimane infinite, utili, mi diceva lei, a che i nostri morti trovassero la strada di casa. Tra me e me pensavo che dimenticarla sarebbe stata impossibile, eppure sarei rimasta ore a guardarli quei lumicini; il fuoco mi stregava. D’altronde reputo abbia questo potere su tutti gli uomini non trovi? “E non si spengono mai”, “Mai Claudia”.
Che “Tutti i Morti” e “Tutti i Santi” fossero anche questue che vedevano protagonisti i bambini alla raccolta di dolciumi per le anime del purgatorio, da ragazzina non ne avevo proprio idea. La città ha dimenticato presto queste usanze aggregative, ciò non toglie che le tradizioni possano ritrovarti, perché, credo io, ci scorrono nel sangue, le abbiamo scritte nel DNA.
Il tratto più affascinante de is animeddas, non sono i dolci, non sono le questue, non sono nemmeno i lumicini, sono le tavole imbandite per il ritorno dei morti, la banca e sos moltos. Come, i morti mangiano? Pare proprio di sì, dato che è convinzione comune che i nostri antenati tornino “a casa” tra il 31 ottobre e il 2 di novembre e che dopo aver controllato che tutto sia in ordine nella dimora, si gustino quei cibi che furono loro graditi in vita: fave, spaghetti e dolci. Che nella tavola non dovessero comparire posate, fra cui coltelli e forchette, era risaputo; alcuni defunti era possibile avessero perso la testa in morte, e per la nostalgia di qualche caro, o per qualche astio non risolto, avrebbero potuto ferire o uccidere, e il sardo è bonu ma non è scimpru[2].
Quel che sorprende maggiormente dell’uso è che la convinzione che i defunti si nutrano di cibo (o del suo odore) è condivisa in tutta l’isola e anche altrove: è una concezione antica, e il cibo prende forma di tramite fra vita e morte; per farla facile consente il dialogo fra chi ancora respira e chi vaga in forma d’anima per la Sardegna.
Non è un caso che is animeddas si festeggino proprio a fine ottobre e inizi di novembre: l’autunno progredisce, le ore di luce diminuiscono e il buio (elemento fra i più congegnali ai defunti) ha la meglio sulla luce e sulla vita verrebbe da dire. Sul piano rituale si verifica il ritorno dei morti la cui venuta risveglia timori sopiti negli uomini: questi per rabbonire i propri defunti offrono loro servigi e doni e i morti immediatamente dopo il solstizio d’inverno, poco prima di natale, abbandonano la società dei vivi colmi di regali, per farvi ritorno solo durante l’autunno successivo. Non è un caso che i festeggiamenti vadano di pari passo con un appuntamento fondamentale per il calendario agricolo: la semina. Grano appena seminato e morti in comune hanno qualcosa di molto importante: il grembo della terra che li accoglie e la speranza di nascere e rinascere al più presto possibile. Non sembra strano dunque che andai a biri is trigu[3] fosse frase campidanese che si riferiva al morire: l’agricoltore di ieri sapeva con certezza che proprio i morti erano in grado di controllare e garantire il felice esito del raccolto. Rabbonirseli era cosa più che intelligente.
E di semi appunto si cibano i morti: le fave d’altronde altro non sono che semi e le fave l’abbiamo detto sono uno dei cibi che più di altri vengono associati ai defunti insieme con le noci, nocciole, le mandorle, le castagne, il grano e la melagrana. Il motivo è più semplice di quel che possa sembrare: i semi hanno il potere di conservare a lungo la vita: i frutti, raggiunto il proprio massimo vegetativo, vengono essiccati e a pensarci bene secchi sembrano morti, ma per lunghi anni hanno ancora la capacità di rigermogliare se messi a dimora nel grembo della Madre Terra. Il ragionamento attribuito ai defunti doveva essere in antichità molto similare: morti parevano morti, ma se posti a dimora nel grembo della Madre Terra ci si augurava che presto avrebbero rigermogliato; d’altronde se lo facevano i semi, perché mai non l’avrebbero dovuto fare gli esseri umani?
Cibarsi di semi significava senza mezzi termini far parte di questo processo di rinascita che veniva augurato anche ai proprio defunti.
L’abitudine di lasciar nella banca e sos moltos fave, fu sostituita con quella di posizionarci piatti di maccarronis[4] (da offrire il giorno seguente ai questuanti). Il discorso non cambia poi tanto, d’altronde gli spaghetti in Sardegna erano fatti di semola e dunque di grano, e il ciclo del grano ha molto a che fare, l’abbiamo detto, con i defunti. Il grano condivide con questi la terra e la sua crescita è dunque sotto il loro controllo. Perché questo crescesse forte era fondamentale rendersi propizi i defunti e non esisteva un modo migliore se non quello di preparare per loro del buon cibo, meglio se con forte valore simbolico, che veniva poi condiviso con i poveri e con i bambini.
A questi (principali intermediari fra vivi e morti) durante le questue si offriva non solo su trigu cottu[5] o su cigiri spistiddau[6], ma soprattutto dolci a base di saba e naturalmente frutta secca (semi). I dolci soprattutto dovevano essere particolarmente graditi ai più piccoli che durante le questue, per ricevere doni, spesso usavano formule intimidatorie ricordando che la morte e il purgatorio era vicino per tutti.
In cambio del loro i più fortunati potevano ricevere pabassine, til(r)iccas, pan’è saba, ossu de mortu e sa pippiedda ‘e tùharu, che in pochi oggi confezionano. L’importanza del dolce come strumento di comunicazione fra morti e vivi è palese quando si scopre che in Gallura, nelle bare dei bambini, oltre che giocattoli si era soliti posizionare qualche dolce che avrebbe mitigato l’amarezza della situazione.
Questue, dolci, e tavole per il morto parlano di un’unica grande necessità: quella di non dimenticare i propri antenati, e di rabbonirli, perché, che non c’era dubbio che sarebbero tornati. Ai vivi il compito di farsi trovare pronti.
Fonti:
Pani: tradizioni e prospettive della panificazione in Sardegna, AA.VV. 2005 Ilisso. Nuoro.
Dolci in Sardegna: storia e tradizioni, AA.VV. Ilisso. Nuoro.
[1] La tavola dei morti.
[2] E’ buono ma non è sciocco.
[3] Andare a vedere il grano seminato.
[4] Spaghetti.
[5] Grano cotto.
[6] Ceci cotti conditi con la saba.
Pubblicato il 31 ottobre 2012 by Kalaris in Sardegna