Articolo di Maurizio Ferrera
pubblicato sul Corriere della Sera il 3 febbraio 2013
Sulla spesa pubblica non è più
tempo di furbizie. Chi riceve prestazioni sociali collegate alla situazione
economica deve rispettare le regole; lo Stato deve dotarsi di uno strumento più
efficace per selezionare i veri bisognosi. Senza progressi in queste direzioni
non può esserci equità né giustizia sociale.
Le dichiarazioni “infedeli” per
accedere a prestazioni agevolate sono numerosissime. Milioni di italiani
riescono così a non pagare i ticket sanitari, i contributi per gli asili nido,
le mense scolastiche, l’assistenza domiciliare; a fruire di sconti sulle
bollette o sulle tasse universitarie; a ottenere borse di studio o sussidi
assistenziali. A seguito di recenti verifiche, è risultato che il 10% dei
beneficiari della cosiddetta
social card era privo dei requisiti
previsti. Come è possibile tollerare ancora questa situazione?
Lo strumento per selezionare i
veri bisognosi si chiama Isee: indicatore della situazione economica
equivalente. Fu introdotto da Livia Turco nel 2000, ma la sua efficacia è
limitata. Nel 2012 il sottosegretario al welfare del
governo Monti ha svolto un
lavoro certosino per calibrare meglio l’indicatore, ascoltando chiunque avesse
proposte e suggerimenti. Il provvedimento di riforma è pronto, ma la sua
approvazione da parte del governo è in forse. Rimandare sarebbe un terribile
errore: non è detto che si ripresenti l’occasione.
La riforma dell’Isee serve
innanzitutto a contrastare sprechi e frodi. Perché agevolare chi dichiara il
falso e probabilmente ha già evaso le imposte? Se usato bene, questo strumento
potrebbe portare anche a un recupero dell’evasione, ad esempio concentrando una
quota di accertamenti fiscali proprio fra la platea di “agevolati”. Nel medio
periodo il nuovo indicatore potrà tuttavia essere usato per filtrare l’accesso
a tutta la gamma di prestazioni già oggi collegate alla condizione economica,
ma con regole caotiche e spesso inique. Integrazioni al minimo, assegni di
invalidità civile, pensioni ai superstiti, maggiorazioni di varia natura:
perché i beneficiari di questi trattamenti debbono godere di vantaggi (come la
sola considerazione del reddito individuale, per giunta con varie esenzioni)
rispetto a chi richiede la social card o l’assegno di maternità?
L’interrogativo è sensato anche perché i dati segnalano che una quota
consistente di denaro “assistenziale” arriva a persone che certo povere non
sono. Prendiamo la pensione sociale, pensata per gli “ultrasessantacinquenni
sprovvisti di reddito”. Quasi il 5% dei beneficiari possiede redditi familiari
superiori ai 45 mila euro annui: un controsenso. La percentuale sale a quasi il
15% nel caso delle indennità di accompagnamento, che non sono (ma dovrebbero
essere) collegate al reddito.
E’ difficile stimare i risparmi conseguibili attraverso l’applicazione del nuovo Isee e la sua estensione a tutte le prestazioni oggi soggette a requisiti economici. In prima approssimazione si può parlare di almeno 10, forse 15 miliardi di euro l’anno
(quasi un punto percentuale di PIL). E’ quasi superfluo sottolineare che una
simile cifra aprirebbe in seno al bilancio pubblico margini consistenti per
finanziare quel “nuovo welfare” di cui parliamo da almeno quindici anni:
politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione (soprattutto dei bambini),
asili di qualità, formazione, conciliazione, non autosufficienza.
Chi è contrario al nuovo Isee e perché? Per quale ragione non ha parlato durante il lungo periodo di consultazione? Si tratta di una delle tante riforme “da cacciavite” di cui il nostro Stato ha enorme bisogno. Attenzione a boicottarla: ci priveremmo di una “leva d’Archimede” con cui sollevare il mondo del welfare italiano, rendendolo
più equo ed efficace.