Da giorni le tv di tutto il mondo ripetono come i militanti dell’ISIS proseguano la loro avanzata all’interno dell’Iraq, conquistando città e procedendo ad esecuzioni sommarie di militari e altri agenti di sicurezza catturati. Quello che quasi nessuno ha detto è che i jihadisti hanno sferrato un attacco anche alle guardie di frontiera iraniane vicino alla località diQasre Shirin, al confine con l’Iraq. Il fatto sarebbe avvenuto qualche giorno fa, ma si è saputo solo ieri attraverso il passaparola sui social media, stante la consueta censura di Teheran ogniqualvolta si verifichino incidenti di frontiera con Baghdad.
Tra le prove dell’avvenuto scontro circola questa fotografia dei corpi di due funzionari di Teheran uccisi. È probabile che sia stata anche la diffusione di questa immagine a convincere le autorità iraniane a fare chiarezza sui fatti di Qasre Shirin. Il primo a parlarne apertamente è stato Fath Allah Hosseini, deputato locale nel Parlamento iraniano, il quale tuttavia ha cercato di “minimizzare” la vicenda, ripetendo che le frontiere iraniane sono sicure e che in ogni caso i residenti di Qasre Shirin non temono un’avanzata dell’ISIS fino alla frontiera. In seguito, in una dichiarazione all’agenzia di stampa YJC, il generale di brigata Ahmad Reza Pourdastan ha confermato che l’incidente ha avuto luogo, aggiungendo però che gli aggressori appartenevano al Partito per la vita libera del Kurdistan, gruppo militante curdo conosciuto anche con l’acronimo Pejak.
Le parole di Pourdastan però non convincono. I curdi sono già impegnati nei combattimenti contro l’ISIS nella località di Jalula, nella parte sudorientale del Kurdistan iracheno, e non hanno alcun interesse ad aprire un secondo fronte addirittura con l’Iran.L’impressione è che il generale abbia preferito attribuire la paternità dell’attacco ai curdi per non generare timori nella popolazionea proposito di un’invasione da parte dei jihadisti. Quello che Pourdastan ha dovuto riconoscere è che le truppe al confine con l’Iraq sono state messe in stato di allerta. Le tensioni tra Teheran e l’ISIS sono una novità recente. In precedenza il gruppo aveva annunciato una tregua nei confronti della Repubblica degli ayatollah allo scopo di mantenere aperte le sue rotte di approvvigionamento attraverso il territorio persiano, ma il mese scorso, in seguito agli scontri con gli altri gruppi ribelli attivi in Siria (Jabhat al-Nusrah in particolare) legati ad al-Qa’ida, l’ISIS ha deciso di venir meno all’accordo. Da quel momento, gli attacchi suicidi contro cittadini iraniani in Iraq si sono moltiplicati. La scorsa settimana, l’ISIS ha anche iniziato a diffondere la propria propaganda in farsi, la lingua nazionale dell’Iran. Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante non è un’organizzazione terroristica come le altre. Al di là del fatto di aver reciso gli originari legami con al-Qa’ida, l’originalità del gruppo sta nell’essersi convertita da formazione di guerriglia a vera e propria forza d’occupazione, facendo un salto di qualità che ad altre sigle era finora mancato. Tuttavia un’operazione contro l’Iran si presenta rischiosa.
Non perché l’ISIS non abbia i mezzi per potersi confrontare contro un esercito regolare: la difficoltà sta nell’essersi espansa troppo velocemente su un territorio completamente circondato da nemici: Usa, al-Qa’ida, Assad, gli altri insorti siriani, turchi, curdi e ovviamente l’Iran. Eppure i miliziani non hanno avuto remore nell’aprire il fuoco contro le guardie di frontiera. Viene da chiedersi, insomma, come mai i militanti dell’ISIS abbiano deciso di estendere la propria avanzata fino ai confini con il vicino Iran. Di primo impatto, la risposta sarebbe quella di voler “punire” il regimo iraniano per il suo sostegno al governo sciita di Nuri al-Maliki., ma questo non spiega come mai l’attacco sia partito proprio ora, visto che Teheran sponsorizza il premier iracheno da sempre. In realtà la situazione è più complessa. Il fatto che i canali d’approvvigionamento via Iran non siano più necessari è indice del fatto che i jihadisti ne abbiano trovati altri, e probabilmente ben più fruttuosi. Quelli che portano alle petromonarchie del Golfo, ad esempio, Paesi che per affinità confessionali e legami storici (le connivenze tra ricche famiglie saudite e organizzazioni jihadiste sono noti da tempo) hanno tutto l’interesse tanto a rovesciare il governo sciita in Iraq quanto ad indebolire il vicino Iran. Il silenzio dell’Arabia Saudita sulla crisi irachena, il “non detto” di re Abdullah, spiega molto più di qualsiasi detto.
Non dimentichiamo che Ryad si è sempre rifiutata di inviare un proprio ambasciatore a Baghdad, non riconoscendo l’autorità del governo locale perché ritenuto alla mercé dell’Iran. L’offensiva dell’ISIS verso quest’ultimo potrebbe essere il primo atto della resa dei conti tra i sauditi e il loro ingombrante vicino.