Istanbul per me è stata un’emozione fortissima, di quelle che partono dall’estremità dei piedi e arrivano fino ai capelli.
Ho riordinato i miei appunti mentali e cartacei, cercando le parole adatte per renderle giustizia e spiegare quel groviglio di immagini e sensazioni che non sempre trovano risposta nei racconti postumi.
Però Istanbul è tante cose.
E’ il mio strappo nel cielo di carta.
Istanbul è una metropoli che non ha una sola identità, ma ne ha mille che convivono e si distinguono, intrecciandosi violentemente. Ti sbatte in faccia la sua realtà a tratti disordinata e amletica e ti porta a farti domande, a staccare i piedi da terra per provare a guardare tutto dall’alto, cercando di dare un senso ad un labirinto senza uscita.
Istanbul è talmente forte che ti verrebbe voglia di prendere la guida e stracciarla in mille pezzi, con tutta la rabbia di chi si trova di fronte qualcosa che non si aspettava. Ma come si fa a raccontarlo, questo posto che è tanti posti messi insieme?
Istanbul è la maestosità della Moschea Blu e di Santa Sofia, una chiesta ortodossa e cristiana trasformata in Moschea prima e in museo, poi. E’ il muezzin che urla dal minareto per richiamare i fedeli e ti coglie di sorpresa mentre passeggi a Carsamba, il quartiere più conservatore di tutti, e un po’ ti emoziona perché ormai anche loro si sono modernizzati e quasi sempre al posto di questa figura in carne e ossa hanno piazzato degli altoparlanti. Invece io il muezzin l’ho visto davvero, conserverò questo ricordo per sempre e quasi quasi li perdono per avermi svegliata alle sei del mattino con la preghiera dell’alba.
Istanbul è una carezza per i cinque sensi.
E’ il raki, una bevanda troppo alcolica che va diluita con l’acqua, ma che secondo me resta comunque imbevibile. Però dopotutto è anche il tè servito in bicchierini minuscoli e bollenti.
E’ l’odore delle spezie che ti accompagna sempre e prende vita in colori sgargianti e nomi stranissimi. E’ la linea dei pescatori sui ponti, con le loro vaschette di pesce e il banchetto con le cozze ripiene di riso e limone. Istanbul è la sensazione del tappeto sotto i calzini, mentre gli interni delle moschee si distendono e compiacciono lo sguardo.
E’ Fatih e la parte triste della capitale, quella che crolla a pezzi, quella che sa di lacrime, quella che porta cicatrici e pesi sulle spalle.
Puoi avvertirlo davvero, il fardello di chi resta ai margini.
Istanbul è tanta vita diurna e notturna.
E’ Istiklal Caddesi con i suoi mille negozi e locali che pompano musica e i ristorantini nascosti nei piani alti di palazzi apparentemente anonimi.
E’ il sapore dei suoi dolci buoni ma stucchevoli o del kebab, totalmente differente da come lo intendiamo noi. E’ l’educazione e la disponibilità dei suoi cittadini.
Istanbul è passato, presente e futuro che fanno a spintoni per sovrastarsi. E’ l’esempio pratico perfetto delle parole traffico, smog e caos.
Ma è anche la tranquillità che trasmette il tramonto a Eminonu, mentre il Corno d’Oro adotta quelle tonalità talmente romantiche e particolari che scioglierebbero il cuore del visitatore più atarassico.
Ovviamente è anche il Bosforo, perchè vedere i delfini dal traghetto è solo uno dei regali che questa parte della città può fare al visitatore.
Istanbul è l’insieme delle tradizioni che non vengono dimenticate, ma messe da parte per lasciare spazio ad una modernità in continua espansione. E’ una città che ogni tanto riguarda il suo autoritratto appeso al muro, dando importanza a ciò che è stata ma spingendo per venire fuori a dare una sbirciatina al mondo esterno.
E’ una tra tutte le donne che restano indietro nella moschea, occupando quel piccolo spazio a loro riservato, che in nessun modo potrà combaciare con quello degli uomini. E’ una religiosità vivissima ma anche abbandonata dai più giovani, i quali non si riflettono più in questa mentalità che non mi sento di giudicare giusta o sbagliata.
Preferisco usare la parola diversa.
Istanbul è il sali e scendi faticoso dovuto ai suoi sette colli -si, come la nostra Roma- ed è l’unica metropoli al mondo appartenente a due continenti, Asia e Europa, perfettamente collegati tra loro. E’ un tesoro UNESCO e non faccio fatica a capirne il motivo, perchè è bellissima. Lo dico con gli occhi di chi ha appena fatto il pieno di meraviglie, perchè è la verità.
Istanbul è bellissima.
Ho detto che per me questa città è lo strappo nel cielo di carta, perchè se per Pirandello l’uomo non è altro che un puntino smarrito, allora forse era stato a Istanbul prima di arrivare a questa conclusione.
Istanbul ti fa sentire piccolo, ti scuote bene per le spalle e ti dice “Vedi, qui? Tutte queste culture esistono davvero e sono raccolte in un unico luogo, avresti mai pensato che potesse esistere una tale varietà di mondi?”.
Istanbul è un pezzettino di ognuno di questi mondi e così li esamina, li riassume e li racconta.
Solo a chi ha la capacità di ascoltare, però.
«Non saprei» risposi, stringendomi ne le spalle.
«Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.»
«E perché?»
«Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.»E se ne andò, ciabattando.
Il Fu Mattia Pascal – Luigi Pirandello