In procinto di rientrare a Istanbul dopo un breve soggiorno italiano, giovedì scorso ho incrociato – a Fiumicino – un nutrito drappelli di pellegrini diretti prima a Jeddah e poi alla Mecca. La prossima settimana, infatti, c’è la festa del sacrificio (Kurban Bayramı, in turco): la festa più solenne dell’islam, che celebra la sottomissione di Abramo – pronto a sacrificare suo figlio (per noi Isacco, per i musulmani Ismaele), poi sostituito da un montone – a Dio.
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La festa dura quattro giorni, quest’anno inizia il 15 ottobre: inizia col rituale del sacrificio di un animale (anche pecore, più raramente capre o mucche), che – in modo macabro, come racconta Pamuk in Il museo dell’innocenza – qualche decennio fa anche a Istanbul veniva organizzato direttamente per strada; oggi, fortunatamente, ci sono centri appositi: dove tra l’altro si delega qualcuno – pagando – a compiere concretamente il sacrificio. Delle carni, è abitudine destinarne un terzo alla propria tavola, un terzo ad amici e parenti, l’ultimo terzo ai poveri: in nome della carità e della condivisione! Alcune ong si occupano di destinare il ricavato – in moneta sonante, non solo in natura – a chi ha bisogno, in Turchia come in molti altri paesi a maggioranza musulmana.E in caso di stagione climaticamente favorevole, anche questo bayram è una buona occasione per vacanze prolungate: col gioco dei fine settimana e dei ponti, molte persone hanno potuto mettersi in viaggio già venerdì per poi tornare anche domenica prossima (20 ottobre); dopotutto, ad Antalya ci sono ancora 30 gradi. Inconveniente automatico, il traffico fenomenale che si sviluppa immancabilmente sulle autostrade in direzione est, in direzione Anatolia. In ogni caso, festa prevalentemente in famiglia: e si banchetta un po’ dappertutto.