
Siamo con la nostra squadra di lavoro nel sito archeologico di Olduvai, in Tanzania.
Tutto intorno, come si può immaginare, è solo polvere, piante di sisal e alberi di acacie.
Il sole, manco a dirlo, è impietoso. Ma ci siamo abituati.
Ad un tratto s’avverte nell’aria del primo mattino lo sgommare sul terreno impervio
delle ruote di un cassonato.
Non mi sbaglio. Il veicolo rosso frena bruscamente. Sono loro.
Sollevo il capo e riconosco te e, poi, l’anziano Oliver alla guida.
Tu hai la solita camicia a quadri, jeans e pedule, e i capelli, come sempre, in disordine.
Mi avvicino. Scendi e mi sorridi. E segue un lungo abbraccio amicale.
Insieme, in tre ci muoviamo, nella direzione precisa del sito.
Ma il nostro affiatamento è disturbato.
Il pensiero corre alla presenza di un collaboratore fastidioso.
E’ lui, forse, a guastare il clima.
Temiamo che possa trattarsi di un delatore.
Delatore per conto di chi?
Ma accarezziamo ugualmente, chinati, i nostri tesori.
E ne siamo appagati.
Qualcosa all’improvviso interrompe, però, il nostro affiatamento.
E’ una sensazione molto strana.
Infatti ,d’un tratto, spariscono sisal e acacie, sito e Olduvai, Tanzania e amici.
La musichetta del cellulare mi avverte che è l’ ora di lasciare il tepore del letto.
E, a sottolinearlo, ci pensa la luce che filtra dalle imposte.
Mentre mi lascio carezzare passiva dal getto d’acqua tiepida della doccia, che mi coccola,dentro mi brucia un’ incommensurabile nostalgia.
Quella di non essere più nella dimensione del mio sogno.
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)






