La conflittualità è una condizione esistenziale ineliminabile che caratterizza tutti gli esseri umani e che può sfociare tanto nella crescita creativa e costruttiva di entrambe le parti coinvolte, quanto in una situazione negativa drammaticamente distruttiva.
Essa può essere considerata un evento naturale, non negativo, e soprattutto quale opportunità per crescere: la risposta potrà essere cooperativa o distruttiva. Sarà distruttiva quando i difensori stimoleranno le parti ad acuire il conflitto, a facilitare e delle volte a provocare la distruzione delle relazioni, facendosi portavoci della rabbia del proprio assistito:
pertanto il procedimento giudiziario, con la definizione di un vincente e di un perdente creerà una situazione di squilibrio tra le parti, dove assumeranno rilevanza anche gli elementi di contesa di scarsa rilevanza pratica, che diventeranno importanti nella disputa giudiziaria, aumentando la conflittualità di fondo; si instaurerà un ingranaggio nel quale la legge risulterà limitata e limitante, dove altri decideranno al posto delle parti (l’autorità giudiziaria).
La conseguenza di questo “iter distruttivo”, a causa delle incongruenze tra i modelli ideali da attuare (norma) e la capacità di realizzarli non risolverà il conflitto ma lo sospenderà, perché riemerga acutizzato in seguito.
Quando infatti non sono entrambi i contendenti a riconoscere le disposizioni emanate come giuste, essi non riusciranno a rispettarle e questo assumerà il significato pratico di ulteriori ricorsi, altre udienze contrastando ai reali interessi delle parti, contro l’economia giudiziaria e contravvenendo alla possibilità di un “giusto processo”.
Quando invece, gli avvocati in primis, aderiranno ad una concezione della legalità intesa in senso pedagogico, quale strumento per educare - fare emergere - tirar fuori non le posizioni ma gli interessi reali delle parti allora ne risulterà un ordine, generato da tutti coloro che operano, come gestori del conflitto, dato dall’armonia di elementi diversi ed addirittura opposti (le rispettive posizioni), e non dalla mera creazione di contenitori (le decisioni di diritto), che isolano, semplificando le differenze ed i contrasti.
L'educatore perciò non può essere paragonato ad un istruttore: egli è piuttosto una guida, un esperto che aiuta gli educandi a riconoscere se stessi e la propria personalità.
Con il termine educazione, compresa l'educazione alla legalità, pertanto, si indica un processo più ampio, che coinvolge la formazione della personalità. Il diritto all'educazione deriva dalla natura della persona umana, la quale ha "bisogno" di essere educata per realizzarsi.
L’educante, non potrà considerare l'educando una mera tabula rasa, sopra la quale è lecito scrivere qualsiasi cosa, ma una personalità che ha il diritto di essere guidata, fino al raggiungimento di una piena autonomia critica e di azione.
Perciò i giuristi hanno il dovere di farsi difensori di ciò che si potrebbe definire come il diritto all'identità personale. Se l'istruzione ha come fine ultimo quello di creare uomini dotti, l'educazione mira a cambiare la persona, non in quanto impone un modello di uomo, così come considerato dalla coscienza collettiva ottimale, ma piuttosto perché gli fornisce degli strumenti e i valori, che rendono l'educando consapevole delle proprie potenzialità.