Dea legge Majakovskij
Molti, troppi fra voi, sono poveri. Pei tre quarti almeno degli uomini che appartengono alla classe operaia, agricola o industriale, la vita è una lotta d’ogni giorno per conquistarsi i mezzi indispensabili all’esistenza. Essi lavorano colle loro braccia dieci, dodici, talvolta quattordici ore della giornata, e che da questo assiduo, monotono, penoso lavoro, ritraggono appena il necessario alla vita fisica. Insegnare ad essi il dovere di progredire, parlar loro di vita intellettuale e morale, di diritti politici, di educazione, è, nell’ordine sociale attuale, una vera ironia. Essi non hanno tempo né mezzi per progredire, perché spossati, affranti, pressoché istupiditi da una vita spesa in poche operazioni meccaniche. E’ tristissima condizione e bisogna mutarla… Taluni fra i vostri più timidi amici hanno cercato il rimedio nella moralità dell’operaio. Fondando casse di risparmio o altre simili istituzioni, hanno detto agli operai: recate qui il vostro soldo: economizzate: astenetevi da ogni eccesso nella bevanda o in altro: emancipatevi dalla miseria colle privazioni. E sono ottimi consigli perché mirano alla moralizzazione dell’operaio, senza la quale tutte le riforme riescono inutili. Ma né sciolgono la questione della miseria intorno alla quale io vi parlo, né tengono conto alcuno del dovere sociale… Altri, non nemici, ma poco curanti del popolo e del grido di dolore che sorge dalle viscere degli uomini del lavoro, paurosi d’ogni innovazione potente, e legati a una scuola detta degli economisti che combatté con merito e con vantaggio di tutti le battaglie della libertà dell’industria, ma senza por mente alla necessità di progresso e di associazione inseparabili anch’esse dalla natura umana, sostennero e sostengono, come i filantropi de’ quali or ora parlai, che ciascuno può, anche nella condizione di cose attuale, edificare colla propria attività la propria indipendenza; che ogni mutamento nella costituzione del lavoro riuscirebbe superfluo o dannoso; e che la formula ciascuno per sé, libertà per tutti è sufficiente a creare a poco a poco un equilibrio approssimativo d’agi e conforti fra le classi che costituiscono la Società. Libertà di traffici interni, libertà di commercio fra le nazioni, abbassamento progressivo delle tariffe daziarie specialmente sulle materie prime, incoraggiamenti dati generalmente alle grandi imprese industriali, alla moltiplicazione delle vie di comunicazione, alle macchine che rendono più attiva la produzione: questo è quanto, secondo gli economisti, può farsi dalla Società: ogni suo intervento al di là, per essi, sorgente di male… Quei rimedi non mirano infatti che ad accrescere possibilmente e per un certo tempo la produzione della ricchezza, non a farne più equa la distribuzione. Mentre i filantropi contemplano unicamente l’uomo e s’affannano a renderlo più morale senza farsi carico d’accrescere, per dargli campo a migliorarsi, la ricchezza comune, gli economisti non guardano che a fecondare le sorgenti della produzione senza occuparsi dell’uomo. Oggi il capitale – e questa è la piaga della Società economica attuale – è despota del lavoro. Delle tre classi che oggi formano, economicamente, la Società – capitalisti, cioè detentori dei mezzi o strumenti del lavoro, terre, fattorie, numerario, materie prime – intraprenditori, capi-lavoro, commercianti, che rappresentano o dovrebbero rappresentare l’intelletto – e operai che rappresentano il lavoro manuale – la prima, sola, è padrona del campo, padrona di promuovere, indugiare, accelerare, dirigere verso certi fini il lavoro…
I N D O V I N A L’ I N D O V I N E L L O:
D I C H I E’
Q U E S T O S C R I T T O?
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SPERANZA
Rovinaste vite umane e animali
rovinaste tutte quelle presenti
quelle future rimaste contagiate
ancora soffrire nongioiose.
Mentalità spontanee
di un ceppo antico cavernoso
peggior d’animale imbestialito
non viver d’umano ignaro
di animale dell’istinto.
E sì
si ribella ogni sapiente
seppur analfabeta
coll’impulso del cuor
sensibile e ben vivo
aspirar a nuova èra.
-Renzo Mazzetti-