Ci sono città che parlano, città che ti dicono dove andare e che fare, città che non hai né una cartina né una guida turistica e ti fai trascinare dalla gente, dalla voce che non si sente e che se ti lasci andare, però, la percepisci appena ma tanto basta.
Ieri sono uscita da lezione, qui a Edimburgo, e ho cominciato a camminare, complici il sole e una temperatura meno polare del solito. Ho scoperto una delle cattedrali, l’archivio storico e dei vicoli meravigliosi, che mi hanno portata dritta dritta alla porta di un ostello dentro un castello. A sinistra, il museo dell’arte moderna, chiuso per ristrutturazione. Ho provato a entrare nel giardino, per guardare meglio l’edificio, e ho trovato una scaletta ripida che finiva su un sentiero a ridosso della Water of Leith, che non sapevo neanche cosa fosse prima di iniziare a passeggiare in mezzo ad alberi che sembravano usciti da un film fantasy, con le papere e gli scoiattoli che mi passavano accanto e gli scozzesi coi loro cagnolini senza guinzaglio, educati e disciplinati. Ne ho visti un paio col giornale in bocca, o con un piccolo ombrello ancorato al collare, roba che neanche nei cartoni animati. Passavo loro accanto, stupita, e i padroni mi sorridevano e mi auguravano una buona giornata, una buona fortuna, una buona permanenza, qualunque cosa fosse postiva, insomma.
Seguivo le persone, mi mettevo in coda a quelli che mi stavano più simpatici e, di volta in volta, cambiavo strada, seguendo chi in una città come Edimburgo ha la fortuna di viverci. La maniera migliore per scoprire bei posti, e per perdersi. Infatti, mi sono persa. Ho girovagato per tre ore buone, sotto una pioggerella fitta e imperturbabile che, nel frattempo, aveva preso a scendere.
Mi sono fermata a mangiare delle deliziose patate ripiene a due passi da una scuola elementare, e quando sono usciti i bambini, coi loro impermeabili coloratissimi, era bello perfino sentirli urlare in quella maniera fastidiosa che solo i bambini sono capaci di portare all’esasperazione. Ero fradicia di pioggia e cantavo a voce alta, solo che non me ne accorgevo. «Oh, you’ve got green eyes. Oh, you’ve got blue eyes. Oh, you’ve got grey eyes. And I’ve never seen anyone quite like you before. No, I’ve never met anyone quite like you before».
Al mio ritorno in camera non avevo più dei piedi: due pagnotte inzuppate sì, però. Ed è arrivato il mio vicino di camera, il Bergamasco, a dirmi che avevamo appuntamento, quella sera, con cinque spagnoli, altri quattro italiani, una polacca, un’austriaca e non ricordo più con chi altri.
Pub, birre, tante. Poi ci siamo messi a ballare, a scherzare, a discutere di Berlusconi e Zapatero, di orgasmi simulati e di salto della quaglia, di com’è difficile mantenersi da soli e di quanto tutti, età media ventitrè anni, vorremmo non andarcene mai più, trasferirci in Scozia e restarci, ché perfino il mare c’è e al clima ci si fa l’abitudine.
Questo finché non ci hanno buttati fuori, perché era tardi, il locale doveva chiudere e noi volevamo continuare a ordinare da bere. Così ci siamo convinti a cercare una discoteca. L’unico problema è che quando l’abbiamo trovata era chiusa, e noi eravamo ubriachi, e c’erano altri ragazzi come noi che volevano entrare, ma non potevano… E così sono diventati amici anche loro. Irlandesi, trasferitisi per studio nella mitica Edinburgh di Irvine Welsh e “Trainspotting”. Erano tutti di un paesino vicino Dublino, e parlavano l’inglese migliore che io abbia mai sentito, ma ho la certezza che fosse solo merito dell’alcol.
Il mio Dubliner l’ho notato subito. Ci ho sbattuto contro mentre mi giravo per mandare a quel paese il tipo della sicurezza in discoteca e ho pensato immediatamente che fosse bello, un normalissimo bello anglosassone. Capelli biondi, lentiggini, barba e occhi tra il verde e l’azzurro. Ventidue anni, studente di qualcosa che ha a che fare con l’economia e il commercio, l’architettura e le imprese edili. A me non piacciono quelli così, ma dev’essere che Dubliner aveva un gran bel sorriso, l’aria trasandata di quello a cui importa solo di divertirsi con i suoi amici, e odia il calcio.
Io e Dubliner abbiamo cominciato a parlare, e poi i nostri gruppi si sono separati. Il mio a destra, il suo a sinistra. Noi al centro, con i vari connazionali che ci chiamavano per dirci di sbrigarci. Dubliner mi ha guardata e aveva uno sguardo dolce, dispiaciuto. Non saprei dire com’è stato, però abbiamo salutato tutti e siamo rimasti da soli. Lui e la sua felpina leggera, io e il mio cappotto pesante.
Il tempo scorreva, e noi ci raccontavamo le nostre vite come se dovessimo riprendere le fila di qualcosa che avevamo interrotto. Poi è passato un taxi, e Dubliner mi ha chiesto dove abitassi. Sotto il mio appartamento, si è congedato con un baciamano e ha fatto per andarsene. «Do you want to eat something? I can make some italian spaghetti for you, if you want».
È andato via stamattina all’alba, il mio bel Dubliner. Stringendomi la mano, ha detto: «I will never forget about you and this perfect night». E non esagero quando dico che aveva gli occhi lucidi e io pure, perché non ci vedremo mai più, perché lo sapevamo fin dall’inizio ma non avevamo voluto pensarci, e perché la canzone che cantavo quella mattina aveva un senso: «Oh, you’ve got green eyes. Oh, you’ve got blue eyes. Oh, you’ve got grey eyes. And I’ve never seen anyone quite like you before. No, I’ve never met anyone quite like you before».
Appena ho chiuso la porta di casa, è suonata la mia sveglia. Bisognava che andassi a lezione. Fissavo l’orologio e speravo che quelle ore passassero in fretta, ché dovevo andare a dormire. Quando l’insegnante giovane e carina che segue il mio corso ha chiuso il libro, mi sono catapultata fuori dal college sognando il materasso ad occhi aperti, dopo un bel piatto di spaghetti, ché la confezione era rimasta intonsa, in nottata.
Su Leith Walk, il proprietario di un ristorante salutava tutti. Di riflesso, nel momento in cui s’è rivolto a me, ho risposto «Buongiorno!». Il ristoratore è di Potenza, da sei mesi ha aperto il suo terzo locale a Edimburgo e il caso ha voluto che quello fosse il giorno designato alla registrazione dello spot pubblicitario. «Ho giusto bisogno di una bella ragazza come te che mi faccia da modella, ti va? Appena finiamo, ti offro il pranzo». Ho proposto di portare con me anche la ragazza livornese, e Ristoratore ha accettato ben volentieri.
Così, ci siamo ritrovate io, lei e un giovane bolognese che gioca a calcio in serie B in Scozia, nella squadra che ambisce alla promozione visto che è prima in classifica. Il regista del video ci diceva cosa fare, come muoverci, quale profilo mostrare alla telecamera e la quantità di vino da sorseggiare: il quadretto doveva essere quello classico del gruppo di amici in allegria attorno a un tavolo. Noi accettavamo di buon grado, mangiando le nostre pietanze italiane ai funghi freschi, sorridenti e contenti, guardandoci in faccia di quando in quando e domandandoci come potessero accadere cose del genere.
Strange days, lovely places and beautiful people. Da quando sono arrivata, ogni singolo giorno è stato meglio del precedente.
Non so se è Edimburgo, il fatto che siano tre giorni che non bevo un goccio d’acqua, o qualcosa che non ho ancora inquadrato, però so che oggi, camminando per l’assolata Queen Street, cantavo “Perfect Day” ed ero felice.
Oh, you’ve got green eyes. Oh, you’ve got blue eyes. Oh, you’ve got grey eyes. And I’ve never seen anyone quite like you before«»