Memoir, diario di viaggio (e di esplorazione), ricerca etno-antropologica, documentario estatico, film sommes(/r)so e ramingo: si potrebbe andare avanti ancora e ancora per É na Terra não é na Lua(2011), opera che ha dell’herzoghiano nel suo essere così tenace, perché ciò che ha compiuto GonçaloTocha insieme al fonico Dídio Pestana è una vera e propria impresa sotto tutti i passaggi produttivi: recarsi nel 2007 nell’avamposto più estremo dell’Europa, l’isola di Corvo, la più piccola delle isole Azzorre, con una videocamera e un microfono, stabilirsi lì per quasi due anni e, aspetto più difficile, conquistarsi la fiducia degli abitanti, e quindi intrufolarsi nella loro vita, nelle loro usanze, nei loro riti, nelle loro paure e nei loro pensieri, e infine andarsene, e montare, impacchettare, distribuire il film fatto e finito senza il minimo appoggio di case cinematografiche.
Tocha, soltanto all’opera seconda, erige un monumento geo-storico che probabilmente non ha precedenti, una commistione tra Uomo e Natura spalmata su centottanta minuti (scrematura di centottanta ore di girato) che non solo apre il sipario su una realtà sconosciuta ai più, ma che registrando diventa archivio. È qui il cuore palpitante di É na Terra não é na Lua, ci sono molti documentari che si occupano di ripercorrere la Storia, di fare luce sul passato, questo, al contrario, la Storia la fa; non un lavoro di ricostruzione, bensì di costruzione, perché Corvo era un luogo che non aveva memoria (parecchi documenti finirono bruciati in un incendio) e Tocha, raccogliendo storie di balene e di preghiere, di anziane tessitrici e pescatori, di politici ed allevatori, e imbrigliando con il suo occhio i prati smeraldo, il vento, la pioggia battente, le cascate a picco nel mare, il mare impetuoso, ne edifica una nuova, una Memoria collettiva che dialoga con l’ieri (bellissimi, dopo quasi tre ore di proiezione, i filmati di trenta quarant’anni prima) consapevole dell’oggi.