Magazine Rugby
Un insieme di tattica, preparazione, strategia e fisicità da esercitare in un continuum spaziotemporale per arrivare alla partita perfetta. Grandi emozioni dunque per noi sportivi da divano. Attenzione, accusatemi pure di essere un modaiolo, ma io sono vicino a questo mondo da tempi non sospetti e come mi impone la tuttologia ho dovuto pormi di fronte anche a questa esperienza diretta. Provare e mettersi in gioco per capire. Facevo la terza media e la mia fisicità era prossima a quella di un budino alla vaniglia, quando non ricordo chi, trascinò me e un gruppetto di compagni di scuola al campo dei ferrovieri, detti i Feroci, dove già allora ci si dedicava alla palla ovale. Alessandria è sempre stata antesignana nelle novità, salvo poi lasciarle andare, perchè nessuno ci crede fino in fondo. Comunque sia, un volenteroso istruttore ci spiegò alla meglio le regole e poi ci dispose in fila sul campo, dove, essendo fine marzo c'era più fango che erba. Eravamo attrezzati come durante l'ora di ginnastica a scuola, scarpa Superga, pantaloncini blu con l'elastico e maglietta bianca come il latte, per il resto mi ricordo solo un freddo cane.
Ci passammo l'un l'altro quello strano oggetto ovale tra le mani tanto per familiarizzare, poi il tipo ce lo lanciò una volta per uno per capire se eravamo in grado di afferrarlo, infine decise di introdurci direttamente nella mischia. Appunto. Capimmo solo che lo spirito era quello di tenere ben stretto l'oggetto e di correre il più velocemente possibile verso la meta, mai parola era stata più significativa, mentre gli altri dovevano cercare di fermarti. Così ci muovemmo un po' qua e là inzaccherandoci per bene di mota. Sembrava divertente, ma se devo dire la verità io ero già distrutto dalla fatica. Ad certo punto, non so come mi ritrovai l'ovale in mano e sentii qualcuno che mi gridava "corri". Correre per me è sempre stata una parola grossa, ma deciso, chiusi gli occhi e mi avviai lemme lemme nella giusta direzione. Non mi accorsi di nulla, ma dopo un istante fui come investito da un treno in corsa (eravamo appunto ai Ferrovieri) che si era schiantato contro il mio stomaco in modo inusuale e violento. Precipitai verso il suolo al rallentatore, come un baobab stroncato dalle seghe.
L'accetta di uno o più boscaioli mi avevano abbattuto con una spietatezza a me sconosciuta. Precipitai senza un grido come un tronco morto, scivolando nell'umida palude a braccia avanti, la faccia piena di fango. Neppure il tempo di alzare un lamento, incapace al tempo stesso di sputare il misto di terra e di erba fangosa, che di liberarmi della montagna di corpi che mi seppelliva. Ero ormai una maschera sporca quando cercai di alzarmi, senza neppure udire poco lontano il mister che spiegava al gruppo di ragazzini eccitati i segreti del placcaggio. Mi faceva male da tutte le parti. Lasciai il campo dolente e intristito, così coperto di schifezza dalla testa ai piedi che quando arrivai a casa, la mia mamma non riusciva a capire dove fossi caduto. La domenica successiva non mi chiesero neanche più se volevo andare al campo. Io feci finta di niente, intanto imparai a giocare a scacchi.
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