Anna Lombroso per il Simplicissimus
Oggi, giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, si raccolgono le firme della campagna L’Italia sono anch’io. L’intento è quello di sostenere una proposta di legge di iniziativa popolare per riconoscere in modo più semplice e veloce la cittadinanza a chi è nato in Italia. In modo che almeno i bambini siano tutti uguali. Come i diritti.
Attualmente la legge sulla cittadinanza italiana è una vergognosa anomalia in Europa, una legge concepita per un paese vocato all’emigrazione più che all’immigrazione (per quanto la legge sia del ’90) e, si direbbe, al rifiuto più che all’accoglienza. Si può diventare cittadini italiani solo dopo dieci anni di regolare e continuativa residenza e le persone nate qui possono aspirare a diventare “italiani” solo al compimento del diciottesimo anno di vita.
Nel tanto parlare di vita nuda, esistenze prive di garanzie e protezioni, un concetto legato al lavoro all’utilità sociale, alla produzione, oltre che alla relazione tra flussi e luoghi, agli ambiti dell’abitare e del con-vivere, si sottovaluta a volte quanto il “riconoscimento” ufficiale dell’identità e dell’appartenenza influenzi e condizioni. Condannando i più innocenti e i più vulnerabili a un destino “razziale”, quello di zingari se non apolidi, di stirpe asociale,di sottospecie umana, di sradicati e inadatti alla convivenza civile.
È paradossale prima che incivile che una nazione la cui carta costituzionale sancisce il primato dell’uguaglianza e che proclama l’integrazione, nella pratica la renda impossibile. Vogliamo che i bambini rom vadano a scuola, ma permettiamo che le ruspe passino senza pietà sui loro quaderni e sui loro disegni. Vogliamo che mangino i nostri cibi, preghino il nostro dio, venerino il nostro crocifisso, rispettino le nostre leggi, compiano i nostri doveri di italiani. Ma devono aspettare per esserlo e “meritarsi” i nostri diritti.
Siamo un paese nel quale dei bambini vengono al mondo senza prima e senza dopo, legalmente e spiritualmente privati di idioentità, negati nei loro fondamenti di appartenenza, perché non conformi allo “jus soli”, a quei principi di “ordine” che fanno del territorio e della geografia una garanzia di normalità, simbolica e reale.
E che invece di accogliere, proteggere e dare a chi arriva sul nostro suolo, rifiuta, esclude e toglie.
Le nude vite sono quella massa sempre più numerosa, in cui confluisce il fiume tumultuoso e turbolento dei senza dimora, dei rifugiati, dei profughi e dei migranti, degli infiniti apolidi della globalizzazione, quelle vite di scarto, cui la cittadinanza è stata strappata di dosso dalla potenza avida del profitto. E sono creature in attesa che nel suo immorale disordine l’”amministrazione”, con le sue regole, con le sue burocrazie, con i suoi controlli, con le sue barriere, con le sue autorizzazioni, decida benignamente di farli diventare come noi.
Intanto restano invisibili ai nostri occhi ciechi o invadenti, paternalistici o pii, disattenti o crudeli, indifferenti o soverchianti, compresi della nostra superiorità e del nostro sguardo unico e incapace di vedere altro e l’altro.
Forse non saremo puniti noi della nostra “banalità dell’indifferenza”. Ma è tremendamente probabile siano puniti i nostri figli, chiusi nella loro triste coscienza di espropriati dei privilegi che ci facevano sentire sicuri, di impauriti dalla perdita del benessere, di solitari in un mondo dove da padroni saranno diventati anche loro sommersi. Ci sarebbe una ricchezza che può ancora salvarci e salvarli, quella dell’umanità e della solidarietà, quella del rispetto e del riconoscersi reciproca dignità. E non c’è da aver paura di tasse e sanzioni, non costa nulla anche se è la più preziosa, quella che fa restare uomini.