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È tutta la mattina che penso a qualcosa di intelligente da scrivere sui 150 anni dell’Unità d’Italia. Qualcosa di non detto da altri, ecco. L’unica perla di saggezza che mi è venuta in mente è che sarei ipocrita a parlare bene del mio Paese (per forza) dopo avere confessato di non fidarmi affatto di esso. E condivido, per paradossale che sia, il pensiero di quanti sostengono che sia “pigra e autoindulgente la retorica sull’Italia che diventa forte e unica solo nelle difficoltà e ha nella capacità di arrangiarsi e cavarsela dei tratti peculiari e addirittura ammirevoli”. Pensare ad altro, tuttavia, è per me uno strenuo esercizio ossimorico. Andare troppo in là nel tempo non so quanto aiuti e l’ultimo momento di gioia collettiva e di orgoglio nazionale che ricordi è stato quando abbiamo vinto i campionati di calcio nel 2006. L’Italia – so che è un’osservazione precettistica – è nuovamente apparsa unita e solidale quando si è stretta attorno a L’Aquila appena sconvolta dal terremoto due anni fa. Questa è stata una delle poche circostanze in cui ho amato davvero il mio Paese. Da qui una riflessione, banale anch’essa. Massimo D’Azeglio disse che fatta l’Italia toccava fare gli italiani. A 150 anni di distanza la tesi è diametralmente opposta. Gli italiani si sono fatti popolo (i leghisti no, ok), ma l’Italia è da rifarsi daccapo. Il nostro Paese ha perso lo smalto che lo ha contraddistinto agli albori, abbiamo perso il gusto di innovare, di crescere, di creare benessere. Sarebbe necessaria una spinta propulsiva da Nord a Sud – la stessa che ci fa festeggiare le vittorie sportive o che ci raccoglie nei momenti di crisi – al fine di rilanciare un Paese che necessita di una svolta non indifferente. L’amico Daniele oggi scrive che “questo è un paese migliore di quello che sembra”. Lo penso anche io, ma sta a noi dimostrarlo. Possibilmente, anche grazie ad una adeguata classe dirigente.
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