Italiano e dialetti oggi: storia di una lingua, storia di due lingue

Creato il 26 febbraio 2013 da Sulromanzo

Pier Paolo Pasolini ipotizzò la morte del dialetto nei suoi Scritti corsari, così come anni fa si suppose quella del congiuntivo, dinanzi alla diffusione dell’indicativo in qualsiasi contesto, dai meno ai più controllati; a scuola la situazione non è mai cambiata: in classe, con gli amici e gli insegnanti, si parla italiano, possibilmente senza errori, e non dialetto; raccomandazione comprensibile oggi, a centocinquant’anni dall’unità d’Italia, ma priva di fondamenta ieri, quando il nostro Stato era appena nato e i maestri, pur essendo direttamente responsabili dell’alfabetizzazione, erano, purtroppo, semi-analfabeti. Nonostante questo, il dialetto è stato considerato sempre più – e lo è non di rado tuttora – un orrore, anti-cultura da evitare, nel migliore dei casi; estirpare, nei peggiori: quasi come se non fosse nato anch’esso dalla nobile lingua latina.

Rispetto alle altre nazioni, l’Italia è uno Stato di costituzione indubbiamente recente: l’unificazione politica è avvenuta soltanto nel 1861 e, anche se già Dante nel De vulgari eloquentia aveva fatto cenno a una sorta di cultura italiana – riscontrabile, però, in una corte frammentaria –, quella linguistica avvenne molto tempo dopo; fatta l’Italia, insomma, bisognava “fare gli italiani”, e non era questione da poco: ogni realtà aveva una propria identità e la combinazione di elementi estranei in una nuova, ma non nuovissima, macro-cultura avrebbe dovuto superare problemi di vario tipo, non soltanto economici, ma anche socio-culturali.

Il dialetto, quindi, è stato per molto tempo l’unico strumento di comunicazione, la lingua materna che si apprendeva dai genitori (ma non solo) e che i propri figli imparavano autonomamente, essendovi esposti sin dalla nascita e durante tutta la giornata, a tal punto che, in pieno Ottocento, Alessandro Manzoni ebbe molti problemi a trovare una lingua adatta a Renzo e Lucia: lo scrittore doveva coniare una lingua che fosse sì rappresentativa del loro ceto di appartenenza, ma altresì condivisibile da tutti, nell’ottica di una futura e capillare diffusione del suo romanzo; un’impresa vera e propria: fino ad allora l’italiano era stato lingua d’élite, utilizzata, cioè, soltanto dagli intellettuali, tra l’altro quasi sempre per scrivere e non per parlare; come se non bastasse, anche nella scrittura poteva essere preferito il francese a un idioma che di “proprio” aveva ben poco. Manzoni, in altri termini, doveva far parlare Renzo e Lucia, di certo non due nobili, con una lingua che non era mai stata parlata e che un qualsiasi Renzo e una qualsiasi Lucia della realtà non conoscevano.

La sua proposta – l’insegnamento del fiorentino in tutta Italia – proprio non piacque al capostipite della dialettologia scientifica, Graziadio Isaia Ascoli, fortemente convinto che, essendo assente in Italia una forza centripeta come quella parigina in Francia, tale assurda imposizione dall’alto andasse rivista.

«Se però è chiaro – scriveva Ascoli nel Proemio all’Archivio glottologico italiano – che l’Italia non abbia l’unità di lingua perché le sono mancate le condizioni fra le quali s’ebbe altrove, […] rimane sempre, che la differenza dipenda da questo doppio inciampo della civiltà italiana: la scarsa densità della cultura e l’eccessiva preoccupazione della forma».

Per Ascoli, era necessario, insomma, che la spinta a questa unificazione linguistica ancora scomoda a qualcuno – esemplare è il caso di Venezia e della fedeltà dei veneti al loro idioma –, venisse dal basso, dalla diffusione della cultura, quindi da una drastica riduzione del divario tra intellettuali e resto della popolazione.

A prescindere dalla “questione della lingua”, pare evidente che il dialetto sia stato protagonista degli anni pre-unitari fino all’affermazione dell’italiano ai tempi della società di massa: sottoposto a standardizzazione e codificazione nelle e dalle grammatiche, il fiorentino è il volgare grazie al quale la nostra lingua ha preso forma, a testimoniare che il rapporto tra l’uno e l’altra non va interpretato nell’ottica della dicotomia giusto-sbagliato; il dialetto non è una storpiatura della lingua – essendone tutt’al più sorella, vista la comune discendenza –, ma un idioma vero e proprio.

La differenza non sta in un fatto strutturale, quindi linguistico, ma in questioni sociali, culturali e, in primo luogo, storiche, che hanno investito tutta l’Italia, sin da quando Dante ipotizzava nel Convivio che il volgare “luce nuova” sarebbe sorto «là dove l'usato tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce», sostituendo di conseguenza il latino: ipotesi avversata da gran parte degli intellettuali fino al Cinquecento, quando, con le Prose della volgar lingua del 1525, Pietro Bembo propose finalmente due modelli per il volgare poetico e prosastico (scartando l’Alighieri e considerando punto di riferimento lo stile di “uno scrittore e poco più”, cioè quello di Francesco Petrarca e di Boccaccio nelle novelle “eroiche” della decima giornata del Decameron).

«La distinzione fra lingua e dialetto si basa unicamente su criteri di tipo sociale – scrive Mari D’Agostino, docente di linguistica italiana, in Sociolinguistica dell’Italia contemporanea –. Dunque, solo collocando un determinato idioma all’interno di una collettività, in un dato momento storico, possiamo classificarlo come lingua o dialetto. Essenziali sono, infatti, le funzioni sociali a cui assolve, le regole di uso all’interno della comunità e il prestigio di cui gode presso i parlanti. […] Queste semplici definizioni rendono immediatamente chiaro che il rapporto reciproco lingua vs. dialetto può cambiare nel tempo, come è accaduto nella storia linguistica italiana» [il riferimento è all’affermazione dell’italiano, di base fiorentino, in un contesto di assoluta dialettalità, ndr].

Il numero di dialettofoni, oggi. è diminuito drasticamente: rari sono i casi in cui il dialetto rappresenta la lingua materna e l’italiano, invece, quella seconda. Prima di arrivare alla stabilità dei giorni nostri – comunque messa in discussione da tendenze “neo-standard” – la strada è stata lunga e i sentieri, impervi; ipotizzare la morte del dialetto, come Pasolini – «Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto […] c’è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come […] perdita della realtà» –, o addirittura auspicarla è impensabile: il dialetto è nella storia della nostra civiltà e, assieme all’italiano, continua a scriverla.

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