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A dirlo è Guido Piovene, che parla de La giornata di uno scrutatore (1963), uno dei romanzi brevi di Italo Calvino che, nell'intenzione del loro autore, dovrebbero essere un affondo nella realtà urbana contemporanea. Libro ben strano, questo: filosofico e concreto insieme, con un protagonista - lo nota ancora Piovene - sempre più astratto. Ambrogio Ormea ha, sì, un nome e un cognome, e sono dati identificativi talmente forti che costituiscono le prime parole del racconto; però non sono altro che uncini di un pensiero libero e astratto nella vita italiana degli anni '50 e '60. Il fascio di sentimenti e idiosincrasie si scarnifica, non vuole avere ricadute nel mondo reale (come ben dice la prospettiva di avere un figlio, delle responsabilità che ciò comporta): la vita può avere accesso alla mente (lo si evince dal titolo di scrutatore che Ambrogio Ormea si guadagna: colui che scruta, che guarda in profondità), ma non sia mai che l'uomo interferisca con il corso delle cose, tranne in un caso che, proprio per essere eccezionale, sembra un momento di rottura. Ma per capirlo, dobbiamo andare a vedere di cosa si tratta.
Lo scenario è il Cottolengo, una struttura per derelitti della società: storpi nati o divenuti nel tempo per qualche incidente, pazzi, malati, orfani del tempo e dello spazio. Formalmente, però, hanno tutti diritto di voto: così, in occasione delle elezioni viene allestito un seggio, dove suore premurose esprimeranno il voto e la presunta volontà degli assistiti, oltre alla propria. Naturalmente le crocette in un simile contesto raggiungono tutte la Democrazia Cristiana e ciò riesce molto indigesto ad Ambrogio, comunista convintissimo e ancor più convinto della prossima vittoria degli avversari politici. Al Cottolengo le cose non possono che andare così: e passi pure per i casi dubbi, ma quando a manifestare una volontà dovrebbero essere malati del tutto incapaci di intendere e di volere, ecco che Ambrogio Ormea finalmente dice no, che così non può andare. Obiezione corretta, che non desta né stupore, né le temute proteste, anzi modifica a breve termine il corso degli eventi, ma obiezione in fin dei conti tra parentesi, poiché non avrà nessuna ricaduta reale: le elezioni sono segnate.
Ambrogio Ormea sia pure un intellettuale impegnato, un intellettuale tra la gente, rimane pur sempre un po' "diluito" - in lui c'è un senso di impotenza, un'incapacità di modificare la realtà, in lui c'è quel tratto che lo rende, suo malgrado "intransitivo" rispetto alle categorie fondamentali dell'esistenza sociale. Nello stesso tempo, però, va detto che l'assolutezza del mondo nel quale vive, ovvero la sua ineluttabilità, viene squadernata dalle sue considerazioni sulla passerella a cui è soggetto. L'antropologia quadrata e un po' tozza che distingue l'umano dall'inumano viene messa a soqquadro dal figlio che forse aspetta dalla sua amante - figlio ipotetico, che non è ancora un uomo - e dalle condizioni esistenziali estremamente precarie e boccheggianti dinanzi alle quali si sofferma commosso e più o meno inorridito nel suo tour tra le corsie del Cottolengo.
Quello che sarebbe potuto essere un poema sul superomismo civile - di chi vuole, di chi attraverso la volontà decide e impone le sue scelte agli altri tramite il meccanismo dell'elezione democratica - diventa ne La giornata di uno scrutatore la costatazione inerme che si può essere umani in molti modi diversi, salvo restare accecati di fronte alle altre forme di umanità. Così si impongono il tema della bellezza e quello dell'apparenza (rispettivamente capitolo quinto e settimo, forse i più belli del romanzo), come grimaldelli in grado di smontare ogni assolutezza attraverso la forza salvifica dell'amore contro ogni attesa o previsione:
E pensò: ecco, questo modo d'essere è l'amore.
E poi: l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che gli diamo.
Per questo si oggettivizza la propria impotenza intellettuale, ne si fa un emblema in mancanza di quell'amore che è ascolto e apertura all'esistenza dell'altro nello spazio (fuori e dentro il Cottolengo) e nel tempo (prima e dopo la nostra era). Un amore ecumenico che, com'è ovvio in Italo Calvino, non ha nulla di religioso e nondimeno è trascendente e sovrano.
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