Itanglese
January 1, 2011 by Giuseppe Manuel Brescia
Qualche giorno fa Repubblica ha pubblicato un articolo, anche interessante, sul cosiddetto itanglese, offrendo una selezione di parole inglesi ormai entrate in pianta stabile nel nostro vocabolario. Si tratta del solito articolo sulla lingua scritto da chi è tutt'altro che un esperto. L'articolo a dire il vero non manca di citare le opinioni di chi non si allarma per il crescente ricorso agli anglicismi, tuttavia lo fa piuttosto frettolosamente, e in maniera a mio avviso superficiale. Nel frattempo, come spesso capita in questo genere di articoli, i toni usati sono qui e là un tantino sensazionalistici e caciaroni:
Un'invasione senza freni [...] L'inglese ci contamina [...] gli italiani tradiscono le parole nostrane [...] la contaminazione cavalca la tecnologia [...]
Non è mia intenzione fare la predica sul linguaggio che i giornalisti dovrebbero usare, tuttavia è evidente che questa vena nazional-popolare non solo cozza con quella che è la complessa realtà dell'evoluzione di una lingua, ma addirittura rende alquanto contraddittorio l'articolo, che, come anticipato sopra, non manca di riportare che
la diffusione di termini stranieri è un fenomeno di cui prendere atto, non negativo, e appartiene soprattutto a settori specifici
o che
la lingua non rischia: non si estingue se accoglie parole straniere, perché il lessico ne è solo la struttura superficiale, è minacciata se sono alterate le sue strutture portanti come morfologia e grammatica
Anche se va comunque detto che la 'minaccia' è una minaccia fantasma, visto che senza l'alterazione delle strutture portanti del latino classico (mutamento dei tempi verbali, eliminazione dei casi, e via discorrendo) non avremmo il tanto amato italiano. Mi urta anche quell'orgoglio da tanto al chilo che ci porta a sottolineare, come dei provinciali coi complessi, che
il 50% delle parole inglesi è di origine romanza
laddove tra i linguisti non vi è assolutamente accordo in proposito, e quindi si tratta di un numero buttato lì, come se la cosa, poi, avesse importanza.
Resta comunque una lettura interessante, che mi suscita alcune considerazioni. Da un lato, essendo un traduttore, resto spesso allibito dalla pigrizia mentale di chi prende in prestito espressioni perfettamente traducibili o per le quali abbiamo già un'equivalenza, come ad esempio 'week-end' ('fine settimana', concetto alieno per chi aveva solo la domenica, ma di facile traduzione), 'coffee break' ('pausa caffè' no, eh?), fashion ('moda'), trend ('tendenza') e così via. E divento proprio cattivo quando sento 'wellness' o 'brand' anziché 'benessere' e 'marchio'. D'altro canto, non mi stanco mai di ricordare ai puristi che la 'contaminazione' è sempre stata, è, e sarà sempre il motore dell'evoluzione linguistica, non solo dal punto di vista lessicale ma anche da quello della cultura nel senso più ampio del termine. Parliamo, dopotutto, di quel contrabbando di parole che ispira il nome di questo blog, e del quale (nonostante chi proprio non ci arriva) ho scritto e continuerò a scrivere parole dolci.