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Itis Galileo. Marco Paolini, è sempre un piacere

Creato il 27 gennaio 2012 da Scribacchina

Mi par d’averla già vissuta, questa situazione.

«Scribacchina, è troppo lungo. Taglia. La gente guarda solo le foto: se non accorci, dove le mettiamo, le foto?».

Son diventata sarta, proprio come la di me mamma.
Forbici alla mano, senza tema, taglio. Sfrangio.
Elimino prima il superfluo.
Poi, tolgo il dettaglio.
Infine, ritaglio con grande attenzione la notizia, tutt’intorno ai suoi margini: tolgo sfumature, citazioni, talvolta il senso recondito che con grande perizia avevo estratto dalle nebulose del ragionamento e reso afferrabile ai più.

Eppur sorrido, incurante: ebbene, se la carta stampata stringe, vorrà dire che m’allargherò nello spazio web.
Come cambiano le cose, eh?, soliti lettori: stà a vedere che, da archivio qual era nato, Numéro 091277 mi diventa lo spazio dove pubblicare per intero gl’odierni articoli.

A voi, giovini miei, buona lettura.
E buona lettura pure a chi si prenderà la cronaca sfrangiata, su non meglio precisata carta.

***

Marco Paolini - Itis Galileo

19 gennaio 2012

Esci da uno spettacolo di Paolini e ti guardi attorno con occhi diversi; con la sensazione di avere imparato qualcosa. E con l’illusione – lunga un solo, infinito minuto – di essere un pochino migliorato. Di essere un pochino più ricco dentro.
Itis Galileo è il titolo dello spettacolo con il quale Marco Paolini ha incantato il pubblico bergamasco giovedì scorso 19 gennaio, in un Palacreberg tutto esaurito. Paolini, lo straordinario artista bellunese, versatile quanto basta per passare con disinvoltura dalla tragedia del Vajont all’attualità del periodo Thatcher, alla narrazione della vita di un genio italiano vissuto a cavallo tra ’500 e ’600: appunto, Galileo Galilei. Lo scienziato «con il nome uguale al cognome».

Il monologo che vede protagonista Galileo nasce da una sfida: raccontare con uno spettacolo il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, autore proprio lo scienziato toscano. Un’opera nelle cui pagine, attraverso la forma del dialogo, Galileo dimostra la correttezza del sistema copernicano contro il sistema tolemaico-aristotelico; detta in parole povere, dimostra che la Terra ruota intorno al Sole, e non viceversa.
Fin qui, ci si aspetterebbe uno spettacolo noioso, piatto, di stampo accademico; invece Paolini è riuscito a realizzare un monologo coinvolgente, a tratti commente, sempre passionale. Come ogni opera d’arte che si rispetti.

Il Galileo di Paolini è un meccanico: uno a cui piace lavorare, uno che ama sporcarsi le mani; non è tanto il vegliardo dalla lunga barba tramandato dall’iconografia, quanto un inedito ragazzo, pieno di curiosità e di domande, pronto a sfidarsi e a misurarsi con i numeri. Pronto anche a deludere i genitori, annunciando di voler abbandonare la facoltà di medicina per dedicarsi allo studio della matematica (ai tempi, una delle facoltà meno prestigiose: «per farvi capire, è come se un ragazzo oggi chiedesse ai genitori di fare il Dams»).

Ma nello spettacolo di Paolini c’è anche il Galileo passionale, l’uomo che aveva un’amante (Marina Gamba) con la quale fece tre figli ma che si rifiutò di sposare.
Ancora: c’è il Galileo pavido, terrorizzato dalle conseguenze delle proprie scoperte messe nero su bianco.
E c’è anche il Galileo che deve arrivare a fine mese; quello che, per mantenersi, dovrà abbassarsi ai mestieri più curiosi, come fare le previsioni dell’oroscopo.

L’aria del Palacreberg diventa veicolo di verbo internazionale: c’è l’italiano, il gradito dialetto veneto, la schietta parlata toscana, due parole abbozzate di bergamasco, due di perfetto inglese, un po’ di latino e quel bellissimo italiano rinascimentale che è poesia per l’orecchio. Marco Paolini racconta: è il cantastorie che già conosciamo, incantevole giocoliere in perfetto equilibrio tra parola e ritmo.

E il racconto non potrebbe essere più attuale: l’artista veneto traccia il ritratto di un uomo nel quale rispecchiarsi, nel quale ri-vivere, col quale percorrere un pezzetto di strada.
In Galileo si riconoscono tanti giovani del pubblico del Palacreberg: ragazzi che vedono in lui il primo precario della storia, poco più che ventenne e un incerto futuro come lettore di matematica all’università di Pisa; ragazzi che si riconoscono in lui, primo cervello in fuga (da Pisa a Padova); giovani italiani che sognano di condividerne la sorte, primo e unico capace di passare direttamente dallo status di precario a quello di docente fisso con contratto a tempo indeterminato.
Ma lui era Galileo, signori.

Lo spettacolo è finito.
«Grazie a tutti. E state attenti alla nebbia».
Che intendesse, Paolini, la nebbia tout-court?
O non forse la nebbia che spaventa e impedisce di
andare oltre?


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