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Ivan lo Stalinista | di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Creato il 22 aprile 2012 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Ivan lo Stalinista

di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Racconto tratto da Morte all’alba di Iannozzi Giuseppe disponibile qui in formato cartaceo e come eBook.

Ivan lo Stalinista | di Iannozzi Giuseppe aka King Lear
Scese dal camion, nei pressi di Alba. Non ringraziò il camionista, ma un’occhiata la buttò alla bottiglia di vodka. L’uomo gliel’allungò, e Ivan la prese: “Mia vodka”. Il camionista tentò un sorriso, ma ci ripensò e subito chiuse la portiera, premette sull’acceleratore e lasciò il russo in mezzo alla piazza.

Ivan era stato sotto Gorbaciov ma non gl’era piaciuto: con quella voglia rossa che gli prendeva il cranio pelato, Ivan lo reputava responsabile del collasso economico che prese l’Unione Sovietica subito dopo il 1988, e soprattutto lo condannava per aver abbandonato la vecchia politica statalista. Aveva resistito per tanti anni fra scarafaggi topi coltelli e pallottole, e poi Vladimir Putin era quasi riuscito a illuderlo che si potesse tornare allo stalinismo. Ma Putin era solo un assassino in giacca e cravatta e non una mente stalinista. Sputò allora su Putin, e si lasciò alle spalle quella Russia che era sol più un immenso serbatoio di criminali, di anime morte perfettamente gogoliane.

Passò davanti a un pornoshop; in vetrina giganteggiava la scritta, Ass to Pussy. Ivan gettò l’occhio su una copertina patinata che riproduceva un culo femminile e un fallo di plastica sporco, imbevuto di quello che poteva sembrare yogurt. “A2P, Italia, capitalismo…”, sbottò Ivan: “Pensare male italiani, fottere anale male…”. E fece per passare avanti, ma si trovò faccia a faccia con un nonnetto bianco. Tentò di scansarlo, ma il vecchio gli contrastava il passo improvvisando una sorta di ballo di san vito.
Ivan s’irritò: “Via!”
“Io a quelli come te li conosco… Sporco bolscevico.”
Ivan non lo capiva l’italiano, solo poche frasi smozzicate e qualche parola, ma aveva registrato comunque l’insulto: “Capitalismo uguale merda.”
Il vecchio s’irrigidì e quasi ingoiò la dentiera tanta era la rabbia che covava nell’animo: “L’U.R.S.S. è stato l’errore della seconda Guerra: se la Germania non avesse provato, ma doveva provarci. E’ andata male. Ma doveva. Oggi sarebbe tutto diverso. Tutto.”
“Toglitatti davanti, vecchio siemo!”, berciò il russo.
“Togliatti non fu con Stalin… Lo tradì come Giuda con Gesù.”
”Stalin!”, masticò in bocca Ivan: “Grande Stalin… Chi essere tu?”
Il nonno si grattò la gola, sputò sul marciapiede con disprezzo, poi disse col petto gonfio come quello d’un gallo: “Io ero col Duce, Mussolini. Io non ho mai tradito.”
Alla parola Duce, Ivan s’imporporò tutto in faccia e subito prese per il bavero quel vecchio fascista che gli stava di fronte: “Tu in culo… You’re a fascist. Fuck you!”
Nonostante fosse nelle mani del russo, assai più grande forte e giovane di lui, il vecchio fascio prese a ridergli in faccia, istericamente quasi: “I fascisti come me non hanno mai tradito il Duce. I comunisti come te invece tradiscono sempre, in ogni parte del mondo: qui in Italia è un’abitudine il tradimento.”
Ivan aveva capito poco o niente, ma gl’era chiaro che il vecchio fascio era fuori di cranio. Allentò la presa, e il fascio con un piccolo sforzo si liberò.
“Uguale a tutti gli altri… traditori e perdenti”, biasciò, bianco in voltò, spaventato come chi messo davanti alla falce della morte. E si defilò con la coda fra le gambe.

Ivan non era bello: un gigante biondo, capelli piuttosto lunghi,  grassi e schiacciati sul cranio, e occhi porcini e labbra sottili nascoste da folti baffi, mentre il resto del viso portava i segni di una barba maltenuta. Credeva solo in Iosif Vissarionovic Dzugasvili, o per dirla tutta in Stalin – nell’Uomo d’Acciaio. Non credeva nei pogrom, però li giustificava pienamente, in ogni caso. Era stato Stalin a dare l’atomica all’U.R.S.S. Tutto il resto era menzogna, non poteva essere diversamente per Ivan, per il comunista stalinista.

Si portò lontano. In due giorni arrivò nei pressi di Torino: una Fiat cinquecento rossa lo scaricò su Corso Unità d’Italia, quando il crepuscolo aveva già cominciato a disegnarsi all’orizzonte in grottesche venature fiammeggianti. C’era uno strano paesaggio umano sul marciapiede: gambe nude, tette al vento, rossetti esagerati. Ivan comprese subito.
Non rimase troppo allarmato o scandalizzato.
Una bionda pettoruta lo avvicinò e gli parlò nella sua lingua: “Che ci fai da queste parti? Sei un altro di quelli?”
“Che intendi?”
”Non ce n’è per noi, bello, quindi vedi di scollar le chiappe.”
Ivan le rise in faccia incollandole gli occhi addosso: “Io non ho il vizio.”
“Un magnaccia?”
”No. Sono qui perché non c’è più l’Unione.”
“Qui non la troverai di certo. Avresti fatto bene a restare a casa. Qui è peggio.”
Ivan gettò un sguardo veloce all’intorno: la puttana aveva ragione, il capitalismo schizzava a cento Km/h.
“Quanto peggio?”, domandò. Ma sapeva già la risposta.
“Qui sono tutti come Andrej Romanovic Evilenko. A te stava simpatico?”
“Era malato perché la Russia è malata.”
”Secondo te, Evilenko era un vero comunista?”
Ivan distolse lo sguardo dagli occhi della puttana: “Tutta colpa della Perestroika.”
“Sì, come vuoi. Devo tornare a lavorare…”
Ivan portò definitivamente lontano lo sguardo dalla donna nel momento in cui lei si lasciava caricare dall’ennesimo cliente.

Entrò in un locale di dubbia fama, il primo che trovò aperto. La musica era bassa, era inglese, di parole che sentiva per la prima volta e che già odiava:In Europe and America there’s a growing feeling of hysteria/ Conditioned to respond to all the threats/ In the rhetorical speeches of the Soviets/ Mister Krushchev said, ‘We will bury you’/ I don’t subscribe to this point of view/ It’d be such an ignorant thing to do/ If the Russians love their children too…” *
Stava per fare dietrofront: il posto non gli garbava. All’improvviso uno sbraitò qualcosa coprendo la musica con la sua pazzia nicciana: “Si odia, si ama? E allora??? Non è stato Dio a creare gli uomini, ma gli uomini hanno creato Dio. Questa è la sola verità di cui avete bisogno, parafrasando quel filosofo che divenne grande quanto dio e pazzo più di qualunque io. E poi per dieci anni di pazzia a mangiare escrementi evidenti a tutti, a tutti noi che mortali siamo. Alla fine, nel grembo della terra seppelliamo ogni amore, ogni odio, e tutto questo solo per riesumarli abusando gran fretta quando scocca inesorabile un tempo di carestia e di guerra.” Ivan gettò addosso all’uomo uno sguardo soltanto: gli bastò per dire che quello era pazzo, completamente andato.
“Resti! Federico è così, ma non farebbe male a una mosca. E’ un povero, un poeta filosofo. Lo sopportiamo tutti, per carità cristiana.”
Ivan portò allora gli occhi su quello che doveva essere il proprietario della bettola: non aveva capito una sola parola, ma il volto sorridente dell’uomo gli suggeriva amicizia, complicità. Ivan trasse un sospiro, di rassegnata complicità: “Sia.” E la faccia del proprietario si fece luminosa, quasi rossa.
Ivan consumò una birra che sapeva di collutorio per la gola: la buttò giù senza dire una parola, gettando rapide occhiate al pazzo che se ne stava nel suo angolo, da solo, a sbraitare parole che lui non poteva intendere. Si consolò pensando che la musica era stata spenta.
Pagò la birra con i pochi spicci che aveva in tasca, poi uscì dal locale abbozzando un cenno di saluto con la testa.

La notte era fredda e nera. Come in Russia. E comprese di essere un uomo solo. A pieni polmoni respirò quella notte senza una stella in cielo, e prese a camminare stando attaccato al ciglio della strada, badando che le macchine non lo prendessero sotto. Un morso di luna, tra le nuvole, apparve a squarciare il nero profondo della notte, e Ivan si ritrovò su Corso Unità d’Italia.
“Ancora da queste parti?”, gli gridò qualcuno alle spalle
Ivan riconobbe quella voce e si voltò per incontrarla: “Pure tu qui.”
“Per questa notte, basta.”
La donna si accese una sigaretta: “Vuoi?”
Ivan fece un no con la testa: “Tu dove vai adesso?”
“A casa.”
“Russia?”
La donna prese a ridergli in faccia: “La Russia non c’è più…”.
“Non dire così…”, la rimproverò, con scarsa convinzione. “Siamo senza identità”, aggiunse con voce terribilmente triste e minacciosa.
“Non ci pensare. Se non sai dove passare la notte…”.
“Dove stai?”
”Non lontano. Allora, che fai? la passi con me questa notte?”
Ivan si guardò intorno: “Fra poco è l’alba.”
”La vita è così. Allora?”
“Tu, come ti chiami?”
La donna fece un gesto, un volo di mani disegnato in aria, poi rispose: “Lucilla, qui tutti mi chiamano così.”
“Il tuo nome, quello vero”, fece spazientito Ivan.
“L’ho dimenticato. E faresti bene a dimenticare anche tu il tuo.”
“Io non devo mica fare la prostituta!”
“Dovrai far qualcos’altro se vuoi restare qui o altrove. Questa notte la passi con me. Il tuo nome?”
“Ivan”, rispose l’uomo deciso, orgoglioso. “Ivan, stalinista.”
“Ivan, qui non ha importanza chi sei o chi non sei. Però questa notte sarai nel mio letto, Ivan.”
“La Russia è malata.”
“Me l’hai detto qualche ora fa. Non essere noioso e seguimi.”
Ivan prese a seguire in silenzio, come cane obbediente sotto padrone, il culo di Lucilla: era bello quel culo, ma non avrebbe mai potuto amarlo. E Ivan ne era consapevole.
“Hai un bel culo”, le disse mentre la seguiva.
Lucilla non si voltò per rispondergli: “Ti piace? Scommetto che è un complimento.”
“M’è capitata una cosa, una cosa strana… ero ad Alba – credo si chiamasse così la città – e un vecchio fascio…”.
Lucilla lo interruppe con una risata sguaiata: “Ne incontrerai parecchi altri, non farci caso: qui nessuno gli bada sul serio.”
“Perché?”
“Siamo in Italia, Ivan.”
“Tu stalinista?”
“Io? No, io puttana. Qui sono solo una che la dà via. Ecco, siamo arrivati.”
Ivan fissò la costruzione: era una vecchia cascina. Puzzava di piscio.
“Casa tua?”
“Non è un castello, se è questo che intendi. Vedi di fare piano: non vivo da sola.”
”Hai un compagno?”
“Delle compagne”, lo corresse Lucilla: “come me.”
“Ma io passo il resto della notte con te.”
”Sì, per questa volta.”
Lucilla aprì il cancelletto arrugginito: “Avanti!”
“La Germania non avrebbe mai dovuto mettersi contro l’Unione… è stato il suo errore… A quel tempo l’Unione era troppo grande per chiunque. Ma oggi, di questo passo, diventeremo tutti uguali, anime morte gogoliane”, farfugliò Ivan.
“Che vai dicendo?”
“Che hai un bel culo. Che hai un bel culo.”
Se Lucilla si fosse voltata a guardare bene in faccia Ivan si sarebbe accorta che era non meno spietato di Stalin e di Evilenko.

* Russians, “The Dream Of The Blue Turtles”, The Police, 1985


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