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IV.Il "non sistema monetario internazionale"

Creato il 09 maggio 2012 da Kris @zinfok

Ed ecco a voi la IV parte! (Dopo I.Introduzione, II.Omodossia, III.Regole e Keynes)

Il “non sistema monetario internazionale”


È un dato acquisito che il fattore scatenante della crisi europea sia stato la crisi statunitense originata dai mutui subprime. Cerchiamo di ripercorrerne la catena causale all’indietro: l’ultimo anello è il fallimento di molte famiglie americane (parliamo quindi di settore privato)che si sono trovate nell’impossibilità di rimborsare i mutui contratti. Ma perché le banche hanno prestato con tanta larghezza a debitori potenzialmente insolventi (l’eufemismo subprime indica questo)? Semplice: perché avevano tanta liquidità e, come accade, preferivano impiegarla in modo rischioso piuttosto che tenerla inoperosa. Ma perché le banche avevano così tanta liquidità? Semplice: perché tutto il mondo desidera prestare soldi agli Stati Uniti (ricordate le cifre del par. 2.4? Solo nel 2007 l’indebitamento netto con l’estero degli Stati Uniti è aumentato di 700 miliardi di dollari). Ma perché tutti desiderano prestare agli Stati Uniti?

4.1 Il dilemma di Triffin

Dobbiamo prenderla un po’ larga. Nel luglio del 1944 la conferenza di Bretton Woods adottò un sistema monetario internazionale a cambi fissi fondato sul dollaro, valuta della quale veniva garantita la convertibilità in oro, e rispetto alla quale i paesi partecipanti dichiaravano la propria parità. Il dollaro diventava così lo strumento principale di regolamento degli scambi internazionali, una decisione presa contro l’avviso della delegazione britannica, guidata da Keynes, che avrebbe viceversa preferito fondare il sistema internazionale dei pagamenti su una moneta fiduciaria (il Bancor) creata da una banca sovranazionale. Robert Mundell ricorda che nel 1867, alla vigilia della débâcle di Sedan, era stata la Francia a proporre l’unificazione del sistema monetario internazionale, ma l’Inghilterra, potenza economica dominante, si era opposta[25]. Nel 1944, grazie anche alla delirante politica monetaria di Winston Churchill, stigmatizzata da Keynes[26], gli Stati Uniti erano subentrati all’Inghilterra nel ruolo di potenza dominante, e toccò quindi a quest’ultima incassare il rifiuto.
Ma la vittoria degli Stati Uniti era foriera di gravi squilibri, previsti già nel 1960 da Robert Triffin[27]. Se il sistema monetario internazionale viene a basarsi su una valuta nazionale, il paese che la emette deve scegliere se regolarne l’emissione in funzione delle esigenze proprie o altrui. Gli Stati Uniti si trovavano a fronteggiare il seguente dilemma: decidendo di dimensionare l’offerta di dollari alle esigenze nazionali, ne avrebbero difeso il valore e garantito la convertibilità, ma avrebbero lasciato il resto del mondo senza mezzi di pagamento per soddisfare gli scambi internazionali, condannandolo alla deflazione (e compromettendo anche le proprie esportazioni); decidendo invece di stampare dollari a sufficienza per le esigenze del commercio internazionale, avrebbero evitato la deflazione mondiale, ma compromesso la convertibilità (a meno di un parallelo aumento delle riserve auree, fisicamente impossibile).
E infatti il 15 agosto 1971 il presidente Richard Nixon sospese la convertibilità in oro del dollaro statunitense, ponendo fine al sistema di Bretton Woods. L’oro ha perso rilevanza nel sistema monetario internazionale, ma il suo abbandono non ha risolto il problema, per un motivo semplice: una fuoriuscita netta di valuta da un paese è sempre la contropartita di acquisti netti di beni, cioè di un deficit delle partite correnti. Dato che il sistema monetario internazionale continua a basarsi sul dollaro, “per evitare una penuria di liquidità internazionale gli Stati Uniti dovrebbero mantenere la bilancia dei pagamenti in deficit, compromettendo la fiducia nel dollaro; d’altro canto, ovviare al deficit per rafforzare il dollaro creerebbe problemi di liquidità internazionale”[28].

4.2 Il “global saving glut”

Siamo ancora qui. Essere la “banca” del mondo ha dei vantaggi ma obbliga gli Stati Uniti a indebitarsi col mondo[29]. La crisi dei subprime è solo l’ultima manifestazione di instabilità di un sistema basato su un mezzo di pagamento che intrinsecamente tende a svalutarsi (perché la sua emissione coincide con un deficit delle partite correnti del paese emittente), ma nel quale vengono tuttavia investiti i risparmi del resto del mondo (perché con un commercio mondiale fondato sul dollaro, chi accumula surplus in dollari trova conveniente investirli negli - cioè prestarli agli - Stati Uniti, alimentando così la crescita dei consumi statunitensi e, di riflesso, delle proprie esportazioni).
Come sempre, si può vedere il bicchiere mezzo pieno. È quanto ha fatto nel 2005 il governatore della Fed Ben Bernanke in una prolusione che è rimasta celebre, affermando che il deficit strutturale degli Stati Uniti di fatto è causato dall’eccesso di risparmio (saving glut) delle economie emergenti, che essendo prive di propri mercati finanziari sufficientemente sviluppati, non possono fare altro che investire negli Stati Uniti i proventi del proprio commercio[30]. Certo, c’è del vero nell’idea che il debito estero statunitense, il più grande al mondo (attorno ai 3000 miliardi di dollari) sia reso più sostenibile dalla mancanza di impieghi alternativi per i surplus sempre più imponenti accumulati dai paesi emergenti. Alla fine il problema del debito è se sia possibile o meno rinnovarlo a scadenza, e se a scadenza non ci sono alternative credibili (l’eurozona oggi non lo è), si continuerà ad acquistare la stessa carta. Ma questa visione panglossiana urta contro una dura realtà: nessun paese, nemmeno gli Stati Uniti, ha un’offerta infinita di impieghi redditizi per i soldi che prende in prestito. E quando gli impieghi redditizi terminano, si finisce col prestare soldi per finanziare consumi o investimenti immobiliari (magari a chi non è in condizione di restituirli). Alla luce di queste considerazioni, diventano più chiare le ripetute richieste di un nuovo “Bretton Woods” emesse dai paesi emergenti (e non solo) nell’immediatezza del crollo della Lehmann Brothers[31]. Alla loro base vi era evidentemente l’idea che solo riportando la creazione della liquidità internazionale sotto il controllo di un organismo multilaterale, cioè abolendo l’attuale asimmetria del sistema monetario, si potrebbe creare un ambiente più favorevole a un’ordinata crescita mondiale[32]. Ma se dobbiamo apprendere dalla Storia, è più probabile che a fine secolo ci si trovi ad avere a che fare con un sistema monetario a base yuan (dopo sterlina e dollaro), anziché a base Bancor.
Morale: il “non sistema monetario internazionale” (Gandolfo, op. cit.), ha esposto in passato e rischia di esporre in futuro il mondo a ondate di shock finanziari. E come un velista sotto raffica evita di strozzare le scotte, per lasciarsi un margine di manovra, così sarebbe opportuno che in presenza di simili rischi la politica economica (non solo statunitense) conservasse un minimo di flessibilità. Ma questa non sembra essere la tendenza dominante.

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