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In altre occasioni chi scrive ha spesso paragonato Clint Eastwood a Howard Hawks. Ma vedendo lo sconvolgente “J. Edgar” (la biografia di J. Edgar Hoover, padre padrone del FBI) un altro nome sale con prepotenza alla memoria: ed è, naturalmente, Orson Welles. Davvero “J. Edgar” è il “Citizen Kane” di Eastwood. Non solo per aspetti esteriori, come il lavoro di invecchiamento del protagonista Leonardo Di Caprio, o discorsivi, come i raffinati salti temporali del racconto. Lo è per il suo ritratto shakespeariano di un uomo bigger than life, di fronte al quale - nonostante il film dipinga impietosamente le sue debolezze e il suo tracollo finale - la nostra distanza morale non riesce a tradursi in disprezzo, perché rimane in lui qualcosa di gigantesco e invalicabile; appunto come il Citizen Kane di “Quarto potere”, come Mr. Arkadin, come Quinlan, come tutti i protagonisti wellesiani.
“J. Edgar” non è una storia sociale dell'America, anche se questa emerge con nettezza (e amarezza) dallo sfondo. E' una storia personale di ossessione, di amore omosessuale e di sconfitta. La storia di un maniaco del controllo che tuttavia fallisce anche su questo piano: la sua eterna segretaria Miss Gandy (Naomi Watts) lo trova in lacrime dopo che il nuovo Presidente - un demoniaco Richard Nixon - lo ha messo all'angolo progettando di portagli via la sua macchina informativa per usarla in proprio. Di lì a poco Hoover muore.
Eastwood, sulla scorta di una splendida sceneggiatura di Dustin Lance Black, traccia di Hoover un potente ritratto in cui i piccoli episodi parlano a voce più alta dei grandi fatti storici. Tutti sappiamo che Hoover usava il suo archivio segreto per ricattare i Presidenti, da Roosevelt a Kennedy (vantandosi: “Il Presidente degli Stati Uniti ha paura!”). Ma è più indicativa la scena alla Biblioteca del Congresso, per la quale Hoover ha inventato un sistema di classificazione - e dai libri passa all'ipotesi di schedare tutti gli americani con le impronte digitali. Hoover non nasce poliziotto, nasce catalogatore (“L'informazione è potere”). Un egomaniaco che si identifica totalmente con la sua creatura, lo FBI, e non è mai sfiorato dal dubbio che possa esserci una differenza tra il bene pubblico e il bene del Bureau. Se gli eroi eastwoodiani sono caratterizzati dall'indomabilità e dalla solitudine, J. Edgar Hoover declina la prima di queste caratteristiche nel senso della nevrosi del controllo, e la seconda come prigione in cui si è rinchiuso da solo.
C'è anche un altro momento rivelatore nella scena della Biblioteca. Hoover chiede inopinatamente a Miss Mandy, appena conosciuta, di sposarlo; al suo rifiuto, le offre il posto di sua segretaria (Eastwood racconta anche questo sviluppo come una storia d'amore: lei si commuove). Oltre a essere rappresentativa di una certa vena di follia che attraversa il film, questa sequenza è un'anticipazione del rapporto omosessuale sotterraneo che legherà per tutta la vita Hoover e il suo braccio destro Clyde Tolson (un eccezionale Armie Hammer), con cui è stato amore a prima vista. E' un esempio da manuale di spostamento e sublimazione: Hoover, cui è impedito da se stesso prima che dalla morale del tempo di avere un rapporto d'amore con un uomo, sostituisce all'amore la collaborazione lavorativa. I due attraversano il film come una coppia di amanti senza esserlo.
Col che siamo giunti a parlare al punto centrale del film. Eastwood con “J. Edgar” ha realizzato forse il più bel film d'amore omosessuale della storia di Hollywood (l'orrido “Brokeback Mountain” è già dimenticato). Tutto è trasposto, tutto accennato (gli sguardi d'amore che si scambiano Di Caprio e Hammer sono indimenticabili) - salvo esplodere in un lancinante momento di verità quale la rissa nella suite dell'hotel. Essendo un grande regista classico, Eastwood è al suo meglio nel descrivere l'impalpabile verità dei gesti e delle cose: la mano di Hoover che si posa su quella di Tolson nel taxi e lo sguardo inquieto che dal sedile anteriore rivolge loro la madre di Hoover (Judi Dench) che comprende e condanna.
Perché tutta la psiche di Hoover ruota intorno alla figura di questa madre dominante e colpevolizzante (basta pensare al suo commento sull'assassinio del piccolo Lindbergh), in un rapporto che assume tratti quasi incestuosi. Dopo la morte della madre lui si mette i vestiti di lei e si parla allo specchio come se fosse lei - quasi una lontana eco del Norman Bates di “Psycho”.
Il film si basa su una elegantissima intersecazione di piani temporali, con grandi soluzioni di montaggio (Hoover e Tolson che entrano nell'ascensore da vecchi e ne emergono da giovani; un'analoga fusione di due epoche diverse alle corse dei cavalli). Questa intersecazione non è solo narrativa ma rispecchia l'eterno presente di J. Edgar Hoover; fin da quando appare giovanissimo in bicicletta nel 1919 fino al momento della sua morte, non c'è cambiamento se non fisico in lui. Se di solito una biografia è anche un Bildungsroman, questa non lo è perché non c'è alcuna Bildung: Hoover sembra uscito immutabile dal grembo di sua madre (vediamo solo una brevissima scena con lui bambino e la madre che lo istruisce - lo costruisce - e basta).
Eastwood racconta questa dolorosa biografia americana con uno stile intenso e severo. Sappiano che nel cinema alto e virile di Eastwood tutti gli uomini in ultima analisi sono sconfitti, perché sono battuti dal grande vincitore che è la morte. Per questo l'importante è come si è vissuto; ecco ciò che fonda il grande tema eastwoodiano: la responsabilità.
Proprio per questo il film è spietato nel delineare le scelte immorali del protagonista (per dirne una sola, la falsa lettera a Martin Luther King che scandalizza Miss Mandy), la sua insicurezza che si rovescia in aggressività (vede un tradimento personale in qualsiasi opinione critica), la sua piccineria: vuol essere al centro dell'attenzione, è invidioso del successo dei suoi sottoposti, come l'agente Purvis che uccise Dillinger, modifica la realtà quando detta la sua storia (Eastwood lo segue mostrandoci la versione soggettiva per poi rivelarne la falsità alla fine). E tuttavia questo personaggio attinge una cupa grandezza. Nella mirabile conclusione Tolson, subito dopo la morte di Hoover, rilegge pensando a lui una lettera d'amore scritta a Eleanor Roosevelt dalla sua amante. Hoover l'aveva usata per ricattare il Presidente; con un completo rovesciamento di prospettiva, diventa un'elegia per lui. Nella guerra vittoriosa del tempo contro gli uomini, l'amore è quello che resta.
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