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Jancanive e li sette cani

Da Cultura Salentina
Jancanive e li sette cani

Le Cesine (Lecce), Gigli di Sant'Antonio (ph. A. Bascià)

(Necessaria) premessa: ogni riferimento a cose, virus, animali, persone, personaggi, situazioni di vita vissuta, epoca storica, nonché a vere e proprie calamità viventi è (probabilmente) casuale. Si dice anzi (ma non ne esistono le prove) che questa storia sia stata rinvenuta su un antico e polveroso manoscritto conservato chissà dove.

 

C’era una volta, intorno al Medioevo, nel Salento, in agro di Vernole, nella splendida cittadella fortificata di Acaya, ai margini del verde dei boschi e della fitta macchia mediterranea delle Cesine, una brava, bella e laboriosa fanciulla dalla carnagione candida, che coltivava bellissime e saporitissime pume (piccole mele salentine) biologiche, dalla buccia rossa come il sangue e dalla polpa bianca come la neve: le ricercatissime “Pume Jancanive”.

Questa fanciulla, il cui nome era, per la tipica carnagione nivea della sua famiglia, Vera Jancanive, aveva sette piccoli contadini dipendenti (piccoli di statura, alti più o meno quanto qualche attuale Ministro della Repubblica, e ciò lo diciamo al fine di sottolineare che non sono i dati antropometrici a contare, quanto quelli psicometrici, o almeno, così si va dicendo in giro). Bene, codesti simpatici individui strepitavano sempre come tacchini, al punto da essere noti in tutto il Salento come “Li sette gnani”: il capo riconosciuto, Natu ‘Mparatu; poi Tuttu Mammatu, Sempre Difriscatu, Sempre Durmiscjutu, Sempre Priscjatu, Sempre ‘Ncazzatu e, per finire, il più piccolo di tutti, il simpaticissimo ‘U piccinneddru de casa sua.

I sette strepitanti simpaticoni avevano lavorato sodo per anni ed anni da emigranti in una miniera della Bassa Sassonia, fino al giorno in cui il buon dottor Otto Züpposten, medico della sicurezza sul lavoro, nonché amico di famiglia degli Jancanive, dopo l’annuale visita di controllo, disse con tono greve a Natu ‘Mparatu: “Mio caro, voi sette fratelli avete dei polmoni troppo piccoli per continuare a lavorare in miniera. Secondo le norme del Decreto Legislativo 626/94, se volete continuare a lavorare, dovete farlo d’ora in poi sempre e solo all’aria aperta, per esempio nei campi di pume biologiche della mia amica Vera Jancanive; e non state a preoccuparvi per l’assunzione: provvederò a raccomandarvi direttamente io, alla mia amica!”.

Poco distante da Acaya, nel bel mezzo del bosco delle Cesine c’era un castello dall’aspetto davvero sinistro (non a caso era detto la “Rocca de lu Diàulu”), abitato dalla baronessa Griselda Mofazzubidiièu, una vedova di umili origini tanto ricca quanto avida e tirchia (e pure un tantino “pidocchiosella”), che possedeva sterminati campi di pume, ricevuti in eredità dal defunto marito, il povero Giancamillo Dell’Oca Giuliva, barone dell’Acaya, nonché musicista e letterato di fama mondiale. Griselda coltivava le pume con il metodo tradizionale chimico (niente cacca di mucche, solo decine e decine di fustini di venefici pesticidi usati, con il teschio o la croce di Sant’Andrea sull’etichetta).

La baronessa Griselda, rimasta vedova ormai da 15 anni, aveva un solo figlio, maschio, il bellissimo, intelligentissimo ed educatissimo baronetto Gianmatteo Filippo Dell’Oca Giuliva, il quale avrebbe voluto coltivare le pume con il metodo biologico, ma la madre glielo aveva sempre impedito, perché diceva che quel metodo era troppo costoso e, quindi, antieconomico. Per questo motivo, il baronetto aveva deciso di vivere volontariamente segregato nel castello, dove non faceva altro che suonare il piano nella sua camera, per tutte le ore del giorno e della notte.

La Rocca de lu Diàulu sorgeva nel bel mezzo di una mefitica palude piena di serpenti, zanzare, rospi e raganelle. Poco lontano, c’era la casa del tris-bis-bisnonno di Pietro Minnea, campione olimpico a Moscacieca sui 200 metri piani. Quando era costretto a passare accanto al castello, prima di decidere di trasferirsi nel Barese, Vituccio, il tris-bis-bisnonno di Pietro, si metteva a correre come una Ferrari, al punto che ancora adesso a Vernole e dintorni dicono: “Era ‘u nonnu Vitucciu ‘u campione veru, filu ‘u nipute Pierinu!”…

… A mero titolo di cronaca, oggi tutti gli sterminati campi di preziose pume del Salento di un tempo non ci sono più e persino quella terribile “palude parlante” fa molto meno paura, anzi è diventata persino artistica e poetica, se è vero com’è vero che è ad oggi uno dei paesaggi privilegiati dei pittori e che persino il mitico gruppo musicale degli Aranee del mio amico Luciano, attraverso la voce melodiosa di Rossella, paragona la sua “voce” addirittura “allu ruscju de lu mare”

Ma torniamo a noi…

Dunque, un bel giorno la baronessa Griselda Mofazzubidiieu, persona tirchia, avida e “pidocchiosella” (lo ripetiamo per far intendere quanto davvero lo fosse!), ebbe il coraggio di licenziare tutte le guardie del castello, che restò così difeso solo da sette poveri cani strampalati, sempre affamati, denutriti, infreddoliti e mezzo spelacchiati, i quali abbaiavano continuamente per la fame e per la disperazione… Abbaiavano incessantemente, tutto il giorno e tutta la notte.

I nomi di questi sette cani strampalati erano: Spècchiolo, Lùppolo, Scìvolo, Ràntolo, Bòtolo, Mòrdilo ed, infine, il piccolo, simpaticissimo e vivacissimo Mìkkolo (anche detto Mikkoli).

Spècchiolo era un cane vanitoso ed, infatti, il suo era un nome davvero azzeccato. Diplomato ragioniere, aveva un portamento elegante ed amava solo i prodotti di qualità. Poiché sapeva usare Internet, Griselda gli dava da mangiare qualche osso in più ed, ogni giorno, persino 2 o 3 saporiti biscottini “Alè, Magna, Dog!”…

Lùppolo, il cui vero nome era Mbriakönen, era tedesco, con lontane ma evidenti origini finlandesi, ed aveva un grande amore per le bevande alcoliche, prima per la birra e poi per l’acquavite di pume. Per questo motivo, dopo l’avventurosa fuga da un’Oktoberfest durante la quale aveva tracannato ettolitri di birra come un’idrovora senza pagarne nemmeno il conto di una sola pinta, Lùppolo aveva abbandonato la sua adorata Monaco di Baviera e si era trasferito, armi e bagagli, nella lontanissima Acaya, storica capitale delle pume salentine.

Scìvolo, di certe origini alto-atesine (il suo vero nome era, infatti, Scheifölen), aveva l’aspetto stanco e addormentato, ma era invece dotato di una mente geniale, tanto da tracciato gli appunti per il progetto di una grande torre d’acciaio, che qualcuno copiò secoli dopo per realizzarla a Parigi; inoltre, era pure un vero e proprio mago della sciolina, dato che era stato solo lui a preparare, sempre e solo lui, per anni ed anni, gli sci del mitico campione Gustavino Toni, che viveva a Trafoi, cioè a pochi chilometri di distanza dalla natale Vipiteno.

Il povero Ràntolo aveva sempre l’aspetto sofferente e il respiro affannoso a causa della bronchite cronica asmatiforme; quando abbaiava, lo faceva in modo così strano, che la gente pensava fosse il fischio ululante del bricco del tè. Da 15 anni, ogni volta che veniva a visitarlo, il veterinario scuoteva sconsolato il capoccione e diceva: “Ma ce furmine sta ‘spittati cu’ chiamati don Giseppe pe’ l’estrema ‘nzione? Viditi ca quistu poi ve more de ‘nu mumentu all’autru, pocca!”. Ogni volta che il veterinario veniva e diceva queste cose, Ràntolo con le sue zampine si toccava furtivamente le parti nobili (toccava ferro)… Ogni volta, sempre così, da 15 anni!

Bòtolo era, da parte sua, un cane di piccola taglia; tanto piccolo, quanto (passatemi il termine) rompicoglioni, perché si metteva ad abbaiare all’improvviso e senza sosta come se fosse sempre incazzato nero; sembrava una bestia davvero temibile e feroce, ma in realtà non mordeva mai. Per questo motivo, un cicloturista uggianese, rimasto anonimo, dopo essere caduto dalla bici sul selciato per colpa dello spavento rimediato dal suo improvviso apparire e gran abbaiare, coniò la famosa frase: “Puru li pulici tenune ‘a tossa!”.

Subito dopo, invece, c’era un cane davvero pericolosissimo. Il suo nome era Mòrdilo. Sembrava inoffensivo, sempre tranquillo e pacioso, quasi assente, e talvolta fingeva persino di addormentarsi come un rimbecillito con la sigaretta accesa in bocca, ma non appena qualcuno gli veniva a tiro, passandogli oltre, scattava sulle zampe come una molla tesa e gli addentava le natiche…

Infine, dulcis in fundo, il piccolo di casa, quel Mìkkolo (o Mikkoli, usando il plurale maiestatis), un bassotto rapidissimo, vivacissimo e sempre allegro, che giocava a palleggiare il pallone con la testa come una foca ammaestrata per ore ed ore, sotto gli occhi attenti e interessati di Pantaleo Ciolino, che ogni domenica, chiosando dall’alto della sua riconosciuta competenza, soleva ripetere sempre agli amici del Bar Centrale di San Foca: “Ce buliti cu ne scjucamu ca ‘stu Mikkolo spiccia ca scjoca de moi a tre anni antra ‘a nazionale? Ma ‘nu biditi filu ce fiutu (Nota dell’Autore o NdA: del gol) ca tene?”

… Passò il tempo e una sera Griselda, sfogliando il libro mastro, si rese conto che il margine di utile dalla vendita delle pume si stava riducendo in modo preoccupante. Allora, porse un biscotto “Alè, Magna, Dog” e chiese al suo fido cane ragioniere: “Spècchiolo, Spècchiolo, che hai sempre fame, chi vende più pume in questo reame?”. E quello, di rimando, corrugando espressivamente la fronte, come quella triste circostanza richiedeva, rispose: “Mia dolce baronessa, se prima eri tu, adesso è Vera Jancanive che ne vende di più”.

A quella risposta, Griselda ebbe una spaventosa crisi di nervi e dalla sua testa vennero fuori a raggiera tanti di quei lampi, fulmini e saette, che tutti gli abitanti di Acaya, Vernole e villaggi circostanti (fino ad Uggiano La Chiesa ed oltre) pensarono che si fosse fatto di colpo giorno. Ma il fragore, il rombo, gli scuotimenti e le vibrazioni che ne seguirono incussero un grande terrore in tutta la gente del Salento…

In seguito, per fortuna, Griselda ritrovò la calma e cominciò a pensare a come poter recuperare la sua storica supremazia nel mercato delle pume. Perciò, tiro fuori dal suo cofanetto una preziosa moneta d’oro, la fece roteare in alto fra il pollice e l’indice della mano destra e, rivolgendosi con dolcezza al fido Spècchiolo, gli chiese: “Mio fidato ragioniere, sempre saggio e di gran lume, come posso riacquistare il predominio nel mercato delle pume?”.

Spècchiolo rispose alla padrona: “Nel risponderti son lesto; basta cambiar la foto del manifesto: togliamo il bel volto della giovane e bella Vera e ci mettiamo quello, orribile, d’una vecchia megera!”… Così fecero, ma questa “gran trovata” si rivelò, in realtà, una pessima idea, perché tutta la gente di Vernole e dintorni disse: “Chiàppari, ‘llora è veru, pocca, ca ci mancia ‘e pume Jancanive campa cent’anni! Meh, mo’ oju me le ccattu puru ieu, pocca!”.

Quando si rese conto di quell’inatteso terrificante risultato, Griselda punì il suo cane ragioniere: “Niente più biscottini “Alè, Magna, Dog” per un anno intero: così impari a darmi di questi consigli di merda!”. Non sapendo più che pesci prendere, la povera baronessa pensò che era giunto il momento di rivolgersi al geniale Scìvolo: “Dimmi, caro Scivolo, tu che facevi volare Toni: come faccio a togliermi questa Jancanive da sotto li cojoni?”

Scivolo chiese un giorno di tempo per trovare una soluzione; per concentrarsi, prese con sé un cubo di Rubrichi (NdA: era un prezioso regalo ricevuto dal suo compianto grande amico Giuseppe Rubrichi, noto a tutti come Pippi Brillante), tutti i numeri di “Topolicchio” con le storie di Archimede Metaforico e si chiuse nella biblioteca del castello a pensare. Mentre meditava, gli capito di ascoltare il dolcissimo suono del pianoforte del baronetto Gianmatteo Filippo e gli apparve, fulgida e luminosa, in tutta chiarezza, l’idea giusta. E così si espresse, gridando sulle scale correndo come un pazzo per la gran gioia: “Chiàppari, l’aggiu ‘zzicata, ‘a musca! (NdA: “L’ho trovata, finalmente, la chiave di volta!”, ovvero, più sinteticamente, “Eureka!”).

Dopo aver a lungo pensato e meditato, Scivolo aveva dunque trovato la soluzione: Vera Jancanive avrebbe sposato il baronetto Gianmatteo Filippo Dell’Oca Giuliva ed, in questo modo, Griselda avrebbe monopolizzato l’intero mercato delle pume. Inoltre, quando Vera, già informata dell’ipotesi di fidanzamento, udì il dolce suono del pianoforte del baronetto Gianmatteo Filippo, esclamò senza indugi: “Capperi! L’ho trovato, finalmente, un marito. È stata una gran fatica, ma ne è valsa la pena, però!”.

Peraltro, Scivolo aveva trovato la soluzione ad hoc anche per soddisfare i più volte espressi desideri del baronetto Gianmatteo Filippo, il quale avrebbe potuto finalmente coronare il suo grande sogno di dedicarsi all’agricoltura biologica: in questo modo, avrebbe prodotto pume biologiche e puro miele di api. Così, dopo aver musicato la sua nona sinfonia dal poetico titolo “Chiàppari, quantu su’ bone ‘e pume cuncimate cu’ la merda de le vacche!”, Gianmatteo lanciò la famosa campagna pubblicitaria: “Manciative ‘e pume ca sapune de mele e lu mele ca sape de pume”

… E fu così che Griselda entrò in possesso del monopolio dell’intero mercato delle pume e del miele e venne persino quotata in borsa a Uollu Strittu; anzi, in quel momento di gravissima crisi internazionale, con il Dau Gions e il Qasdnac di tutti i feudi del Vecchio Continente in ripidissima ed inarrestabile picchiata, le Pume Jancanive e il Miele Dell’Oca Giuliva furono gli unici titoli a reggere il segno positivo in tutto il mercato finanziario…

Il momento di grande successo di Griselda non passò inosservato tra i grandi broker dei mercati finanziari, al punto che il multimiliardario zio Paperocchio, ormai assediato e asfissiato dalla serratissima corte di Camelia (la fattucchiera che ammalia) e di Bridgiditta (l’ereditiera che rompe), decise di convolare a nozze con la nostra baronessa…

Tutti i sette gnani e i sette cani ebbero un futuro felice: a tal proposito, tre cani si misero in società con tre gnani per produrre la fantastica enciclopedia Trekkani (e Tregnani), che riuscirono a diffondere con grande successo in tutto l’Occidente, persino nel Liechtenstein e nelle Far Oer, oltre che nelle lontanissime terre, sebbene non ancora scoperte, della Tasmania e delle Isole della Sonda.

Spècchiolo venne chiamato come consulente e primo modello da Dolce e Banana per il lancio pubblicitario di nuovi profumi e dopobarba, visto il gradevole aspetto e il carattere affabulante del vanitoso cane, il quale nel frattempo era tornato ad essere il preferito della baronessa Griselda.

Natu ‘Mparatu, con il povero Ràntolo, fu chiamato come consulente da un ministro di piccola taglia fisica, ma abilissimo a tagliare, razziando le tasche dei suoi sudditi (si era in epoca feudale) ed i tre formarono un terzetto di misura così ridotta, che un tal Silviolo, gran dignitario già noto per i soprattacchi da 20 centimetri ed, in seguito, come protagonista nel Dodecamerone di Giovanni Boccacciamiastettezitta, non ebbe più bisogno di indossare i leggendari calzari, dato che sembrava essere diventato un gigantesco “Gulliper nel microscopico mondo dei Lillipuzzoni”.

Mikkolo, insieme con il procuratore Ciolino e il fido personal trainer Sempre Difriscatu, alla fine riuscì a raggiungere il grande successo come sgusciante attaccante di pallacorda nel Palermo di Zamparellini, dopo una sfortunata esperienza dapprima nella Juventute e poi nel campionato portoghese.

‘U piccinneddru de casa sua e il truce Mòrdilo furono assunti dal baronetto Gianmatteo Filippo come top manager del mercato delle pume: il primo per vendere il gustoso prodotto nei mercati esteri (essendo poliglotta ed assai simpatico); Mordilo per sorvegliare e proteggere il giovane compagno contro i terribili falchi di quel mondo ostile… Fu così che, in breve tempo, le pume Jancanive conquistarono tutto il mercato, al punto che i due chiesero aiuto all’amico Spècchiolo che fu chiamato a svolgere un secondo lavoro, come ragioniere.

Inoltre, il geniale Scivolo fu convocato in Kenia dall’ambizioso, bizzarro e visionario tris-bis-nonno di Barackio ‘Mbama per stilare un non meglio precisato e pazzesco “Progetto a media-lunga scadenza per la presa della Casa Bianca”.

A margine della storia, dobbiamo dire che la baronessa Griselda, su suggerimento del suo promesso sposo Paperocchio, spiccò in volo in mongolfiera fino a Cupirtinu, ridente cittadina della Bilicon Valley in Caldafornia, dove aveva sede la grande Puma-Meckinstosh Computer Inc. Con tale prestigiosa multinazionale l’abilissima Griselda sottoscrisse un vantaggiosissimo contratto di partenariato, che prevedeva la fornitura dell’immagine di una sua puma Jancanive come logo da utilizzarsi su tutti i prodotti Meckintosh (in generale, pallottolieri di osso di seppia e sassi levigati della spiaggia di Porto Badisco).

Infine, a Sempre ‘Ncazzatu e Lùppolo fu affidato l’arduo compito di organizzare le cerimonie di entrambi i matrimoni: quello di Vera Jancanive e quello di Griselda. Tra parentesi, Paperocchio, con abile mossa, riuscì a far pagare i costi di entrambe le cerimonie alla tenera e ingenua Vera… Nel frattempo, Sempre ‘Ncazzatu brontolava sempre, tutto il giorno e tutta la notte, perché quell’autentico ubriacone di Luppolo non faceva altro che razziare tutte le bottiglie di grappa, di vino, di birra e persino tutte le lattine di gasolio, kerosene e benzina verde…

… Dopo mille vicissitudini, però, Luppolo e Sempre ‘Ncazzatu riuscirono a stilare, su un’antichissima e pregiatissima pergamena, due memorabili liste di invitati ai matrimoni; la lista degli ospiti pullulava di personaggi di chiara fama, ma, nonostante tutti gli accorgimenti, non mancò un episodio di grande tensione e pathos, che vide come protagonista addirittura il principale ospite d’onore: Ettì! Infatti, costui, invitato personalmente da Paperocchio, fu al centro di una grossa polemica, che sfiorò l’incidente diplomatico interplanetario, perché quei soliti volgari zoticoni degli Gotti, degli Ugni e dei Visigotti accomunati dalla tonaca verde promossero un “feroce” emendamento parlamentare contro la sua partecipazione alla cerimonia, sostenendo trattarsi verosimilmente (vista anche la sua carnagione color verde sottobosco) di un intollerabile plagio alla loro bandiera, consumato con impudenza da un clandestino, ovvero del solito “fottutissimo extra-feudatario non in regola con il permesso di soggiorno”

Alla fine, però, i feroci verde-togati decisero di desistere dall’insano proposito, anche perché (si dice) ottennero la firma del grande feudatario su un documento in bianco, che provvidero a riempire con varie norme anti-meridionali, compresa anche una soprattassa sui torroni (per affinità onomatopeica con terroni)…

Ettì era giunto accompagnato da Theta Beta che, nel frattempo, riuscì a svelare a Luppolo la ricetta di un eccellente cocktail, molto forte e corposo, a base di trementina, naftalina, formalina, formaldeide e pistacchi di Bronte.

Tra gli altri invitati, ricordiamo per primi alcuni famosi musicisti, intervenuti alla cerimonia in onore del baronetto Gianmatteo Filippo, ormai divenuto un acclamato collega: Giovanni Crisostomo Wolfango Amadeo Moxart, testimone di nozze del baronetto, che scrisse, per l’occasione, la grande opera “Le nozze di Gianmatteo Filippo”, che poi qualcuno trasformò nel certamente più poetico “Le nozze di Icaro”… Altri invitati del baronetto furono: Domenico Gaetano Maria Doni Infetti (che gli portò in dono il suo afrodisiaco“Elisir alcolico d’amore”), Giovannino Sebastiano Bacca (che gli augurò – scherzosamente – una piccola “Palpata e fuga”), l’austro-rumeno Franziscu Petru Sciubertu (che – anche lui scherzosamente – gli dedicò una metaforica“Menza te l’hai fatta, ma menza si’ rimastu a fare e ‘llora, ci propiu te bisogna, nci su ieu ca te ‘pozzu ‘iutare”) e, per finire, Igor’ Fëdorovič Strabinchi (che, invece, gli portò in buon auspicio “’U ‘ceddru de focu”)…

Zio Paperocchio, intanto, dopo essere riuscito a requisire le mance ai camerieri, concluse un colossale affare, cedendo al basso (di statura), ma ricchissimo feudatario, per alcune centinaia di migliaia di Euro, un paio di scarpe con un rialzo (abilmente “criptato”) di 35 cm – al fine di evitargli un imbarazzante confronto con i 7 gnani – oltre ad alcuni aridi ettari di scogliera della costa orientale della Sardegna, che entro poche settimane sarebbero stati “artisticamente” cementificati…

Ma in conclusione, si chiesero in tanti. quale fu l’impatto sociale dei due grandi matrimoni? A tal proposito, gli osservatori internazionali all’unanimità affermarono che quelle due storiche cerimonie riuscirono a cambiare (in meglio) la società feudale e il mondo intero… Seguirono, infatti, giorni, mesi ed anni di pace e di prosperità… Finalmente, sul volto di tutti i bimbi e di tutte le bimbe del Salento, della Capitanata (e persino del Cilento, della Ciociaria, della Val di Sangro, dell’Aspromente, delle Madonie e del Nuovo Campidano) tornò il sorriso e tutti quanti ripresero a giocare felici a girotondo, senza che nessuno avesse più paura del mostruoso Lupo Umberto Verdedibile (il terribile capo dei Gotti, degli Ugni e dei Visigotti)… Unica nota spiacevole (ma accolta con grande entusiasmo dal popolo viola, bianco-nero-azzurro e giallo-rosso, nonché, ovviamente, dal rosanero Arciduca Urlando, detto “il furioso” per via dell’influenza molesta e nociva di “Mastro Tonino Checiazzecca”) fu il gran rifiuto di Mikkolo al potentissimo grande feudatario, che avrebbe voluto portarselo per un pugno di soldi nella sua squadra meneghina di pallacorda, non solo come atleta, ma anche come uomo-immagine, cioè come (ennesimo) specchietto per le allodole da usare per ramazzare un bel po’ di soldi di nuove gabelle imposte alla mite gente dei feudi del Meridione…

… Ma tutta questa storia è, purtroppo, solo il frutto di una dolcissima proiezione freudiana, di un sogno ricorrente che, pur bello e soave, si estingue amaramente nel nulla ad ogni mattutino risveglio…

… La verità è che, oggi, dato il sempre crescente divario nella distribuzione dei redditi nella nostra amata (almeno da noi terroni) Penisola, siamo costretti a chiudere la nostra fiaba con una delle due seguenti frasi, a vostra scelta: “Caru cumpare, larga ‘a fujazza, stritta la via, strincite ‘a cinta cu nu’ perdu li causi, ca puru ieu m’aggiu strinta ‘a mia”, oppure, secondo lo schema classico delle migliori fiabe: “ E vissero tutti (ma solo i Gotti, gli Ugni e i Visigotti, e loro soltanto, ahimè!) felici e contenti”.


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