Si potrebbe andare avanti all’infinito nel descrivere il fulminante esordio di Carlos Reygadas, ma Japón (2002) è un film che deve necessariamente essere visto, deve subire l’atto biunivoco del vedere, dell’osservare, dell’ammirare, fino a che, come capita quando ci si trova di fronte alle grandi opere d’arte, si ha la sensazione che l’oggetto guardato stia in realtà guardando te, dentro.
Il nocciolo della questione è: Reygadas ha un fottutissimo talento perché aldilà del citazionismo rimarcato in ogni recensione, il suo sguardo è, sul serio, una delle cose più emozionanti a cui mi sia capitato di assistere negli ultimi anni.
Esempi: una lucina che si muove su una pozza nera, è il campo lungo notturno di un camioncino che discende la strada del monte; la dissolvenza in bianco dopo che l’uomo si punta la pistola alla testa, è la mdp che placida ha puntato l’obiettivo verso l’alto, verso le nuvole, per poi diabolicamente alzarsi da terra inquadrando il cadavere dell’animale e il protagonista distesovi accanto che diventa sempre più piccolo, più minuscolo: la morte è una cosa troppo grande; l’intransigente sontuosità del piano sequenza finale dove l’immagine vaga tremebonda sulle rotaie del treno, è – voglio che sia così – l’angosciata soggettiva dello zoppo che in un crescendo di musica (plausibilmente quella che ascolta con il walk-man) arriva fino al capolinea della vita, un altro cadavere sulla sua strada.*
Il regista si burla dell’occhio dello spettatore, lo circuisce, falsifica la sua percezione e quindi lo sorprende.
La location, un Messico arroccato sulle aride montagne, aiuta l’autore ad esercitare fascinazione ipnotica nei confronti di chi guarda, ma è la capacità di Reygadas nel cogliere angolazioni originali che implementa la magnificenza dell’ambiente. L’uso continuo di panoramiche (ce ne sarà una notevole nel successivo Battaglia nel cielo, 2005) tramuta il movimento in un fine svelamento, graduale scoprimento visivo che ha valenza, attesa, respiro.
Se il comparto estetico sprigiona una tale imponenza, anche la materia base su cui si fonda Japón, il racconto, ha una profondità propria, ed è ficcante non tanto per gli aspetti in superficie, ma per le traiettorie interne che portano a galla pensieri reconditi.
Il tragitto del protagonista che mette in chiaro le cose da subito (“vado ad uccidermi”) si rivela una ri-scoperta intima, una riattivazione dell’anima che trova nella già citata scena con l’animale morto la sua sintesi: non riuscendo ad uccidersi il protagonista non può che darsi alla vita.
Ma non ci sono derive sentimentalistiche o di ovvia lettura, Reygadas mostra tutta la decadenza fisica della vecchiaia, la bruttura del tempo, ed in questo, però, cava una sincerità, una specie di tenerezza che ha nell’amplesso con Ascen un’indimenticabile cifra disillusoria corredata dal pianto catartico dell’uomo e dalla materna rassegnazione della donna.
Quest’ultima si pone come ultimo baluardo della caritas, arrendevole e tenace donnino che aiuta tutti quando nessuno aiuta lei. Un ritratto rugoso di assoluta autenticità.
Costellato da personaggi secondari in bilico tra realtà e magia, il giudice che decanta le qualità del pueblo, il cantante dalla voce stridula, lo storpio che mangia con i piedi, il film è una vera lezione di cinema che va vissuta oltre la ricercata forma (an)estetizzante.
Guardate Japón fino a che non sarà lui a guardare voi.
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Vale assolutamente la pena soffermarsi un attimo sulla scena conclusiva.
Anticipata dalla ripresa di un campo verdeggiante sul quale strisciano minacciose le ombre delle nuvole, ecco che lo sguardo del regista messicano inizia a percorrere il tratto della ferrovia smarrito magnificamente nella profondità dell’orizzonte. Al lato sinistro dei binari vediamo dei pali ferroviari che non si fa fatica ad intendere come delle altissime croci, in più l’atmosfera funerea è incrementata dalla musica di Arvo Pärt contenente tetri rintocchi mortuari e dalle giravolte compiute dalla macchina da presa che preoccupata scruta il disastro circostante.
Non solo, una volta presa coscienza di ciò che è successo, l’obiettivo si fa radente al suolo come il muso dei cani quando fiutano qualcosa, e accelera in una scala sinfonica fino al palesarsi di quella figura umana tra le rotaie che suggella una sequenza gigantesca, enorme, smisurata, epocale: una sequenza che è un capolavoro come il film stesso.