Che questo sia un film senza coordinate lo si può intendere da una piccola questione come la lingua parlata da Mortensen (danese in America Latina? Suona strano), e dal solito marchio stilistico dell’autore argentino che col suo approccio radicale ha sempre sganciato i suoi uomini dal mero ritrattino. Ma come accennato poc’anzi delle sfumature mutano il colore e, se si scende in profondità, si scova una materia nuova nella lezione di Alonso, una leva che permette di scardinare il lucchetto che incatena gli eventi. Se almeno inizialmente pensiamo di trovarci al cospetto di una rappresentazione storica sui generis (a tal proposito si potrebbe pensare che le visioni filmiche del suo amico Albert Serra [1] lo abbiano un po’ influenzato) con tanto di siparietti comico-sentimentali sull’asse padre-figlia-amante, una volta avvenuto l’allontanamento solitario di Mortensen il film si fa ramingo e dall’apparizione del cane in poi squaderna la non-collocabilità del luogo, non-Patagonia, poiché in prima battuta luogo celebrale e ce lo testimonia l’incontro con la vecchia donna che parla danese dentro la caverna-testa. Inaspettatamente c’è molto simbolo in questa porzione della pellicola, eppure non è nemmeno l’ultimo gradino, perché quello che succede nell’ultimo quarto d’ora alza di una tacca tutto il discorso e ci fa sprofondare nell’interrogativo. Ed è così che in seconda battuta non c’è più lo spazio della geografia e menchemeno quello della mente, anzi qualunque interpretazione psicologica sfuma dato che il padre si scoprirà essere soltanto la rotella di un altro ingranaggio. Potrebbe essere sogno, tuttavia la carta dell’onirismo non basta, è di più, è un regno indefinibile in cui non ci può essere alcuna guida, le cose attraversano il tempo (il bambolotto ed il cane) e lo spazio si sovrappone (le parole dell’uomo nel giardino che dice alla ragazza di essere stata via per un po’).
Jauja, il lavoro più compiuto di Alonso, si rivela quindi opera apertissima, un vero e proprio forum che, come nella tradizione che più preferisco, fa proliferare i quesiti lasciando a zero le risposte. E poi, dal punto di vista strettamente tecnico, non si può non riportare l’interessante variazione narrativa (è comunque il film di Alonso con la traccia di racconto più marcata, almeno nella prima parte, dove, tra l’altro, coesiste una sottile ironia) e la luminosa fenditura che dà su mondi ulteriori, ‘sta volta ben oltre la linea dell’orizzonte. Tutti indizi che confermano uno status autoriale semplicemente superiore. ________________[1] La stima è sottoscritta da un corto di Alonso datato 2011 dal titolo inequivocabile: Sin título (Carta para Serra)