Quando chiedi e ottieni di intervistare uno scrittore che stimi la soddisfazione è grande, ma se lo scrittore in questione ti apre la porta di casa e per oltre un’ora ti permette di entrare nel suo mondo, il piacere dell’incontro è davvero enorme. È quello che mi è accaduto con Jaume Cabré, autore catalano tradotto in quindici lingue e campione di vendite in paesi come la Germania, che lo scorso anno ha portato in libreria il suo ultimo sforzo letterario, Io confesso, edito da Rizzoli, un romanzo straordinario che scruta l’animo umano alla ricerca delle origini del male (già ospite della rubrica 2VociX1Libro di gennaio).
Cabré, nato a Barcellona nel 1947, è stato per molti anni insegnante di spagnolo e catalano alle scuole superiori per poi ottenere la cattedra di scrittura audiovisiva all’Università di Lleida. Ha al suo attivo dieci romanzi, molti dei quali tradotti in italiano come Signoria, L’ombra dell’eunuco, Le voci del fiume tutti editi da La Nuova Frontiera, uno svariato numero di racconti, saggi, opere teatrali e anche sceneggiature televisive e cinematografiche.
L’appuntamento è per le dieci del mattino di un limpido mercoledì di gennaio. Lo scrittore vive in un paese a una quarantina di chilometri da Barcellona in una zona residenziale di silenziosi viali alberati e case dai grandi giardini. Alle spalle, la montagna spruzzata di neve. L’abitazione di Cabré è una villetta unifamiliare a due piani arredata con buon gusto, nella quale i libri sono protagonisti. In una vetrina sono custoditi due antichi violini e una chitarra. La musica classica è la grande passione dello scrittore insieme alla lettura. Niente più che una conferma per chi ha letto Io confesso. Dalle porte finestre che danno al giardino entra una luce limpida, come gli occhi di questo signore dall’aria apparentemente austera ma dai modi affabili e dalla mimica che ispira simpatia.
Lo scrittore mi fa accomodare in salotto e mi offre un caffè che mi prepara lui stesso. Lo seguo in cucina e rompiamo il ghiaccio parlando delle città italiane in cui è stato, della sua partecipazione al Festival Letteratura di Mantova, dove lo scorso anno non ho potuto ascoltarlo, e si sforza di dirmi qualche frase in un discreto italiano. Poi, mi racconta della sua vita, di sua moglie e dei suoi due figli che vivono poco lontano con le rispettive famiglie.
Io, dopo aver letto Io confesso, ho un milione di domande da fargli e con piacere mi rendo conto sin dal primo momento che sarà una conversazione generosa: Cabré parla come scrive, ogni parola apre fronti diversi e lo conduce lontano. Ecco perché, mi dico, i suoi romanzi sono sempre abbondanti di pagine e densi di argomenti che si snodano in direzioni diverse, per poi ritrovarsi in una logica che lo scrittore domina alla perfezione. Viene perciò spontaneo domandargli come nascono queste sue opere così complesse.
È difficile da spiegare perché in realtà non lo so nemmeno io. Sono uno scrittore che definirei “intuitivo”, non ho mai nessuna trama né struttura precisa in mente quando comincio a scrivere. Ho solo un personaggio, delle situazioni o una scena, ma nulla più. Scrivo ma senza sapere esattamente dove andrò a parare; molto materiale lo elimino strada facendo perché inutile. Di fatto, quando mi chiedono che cosa sto scrivendo fatico a dare una risposta perché in realtà non lo so ancora. Di Io confesso l’incipit e il primo capitolo sono state le ultime cose che ho scritto.
Qualche volta seguire gli snodi di trama dei suoi romanzi non è semplice. Un lettore un po’ distratto può perdersi in un istante. Ne è consapevole?
Assolutamente sì. Io nello scrivere seguo il mio istinto. Spesso sui miei fogli si crea un “delta” fatto da molteplici possibilità. E dato che mi sento prima lettore che scrittore elimino ciò che trovo noioso e seguo le parti che “palpitano”, che suscitano interesse e curiosità. Ecco il mio lettore è una persona che cerca l’enigma, che vuole capire, che non si spaventa davanti agli imprevisti e alle situazioni poco chiare. Uno che dice: “dopo capirò”. So che con questo mio stile posso perdere qualche lettore, ma credo ne valga la pena.
Con questo sistema di scrittura così poco strutturato, mettere il punto finale a un romanzo è difficile. Quando e come sa che l’opera è davvero terminata?
La verità è che io non finisco un romanzo perché nella mia testa non l’ho mai cominciato. Come dicevo prima, ogni cosa conduce a un’altra e così potrei scrivere all’infinito. Ma c’è un momento in cui mi rendo conto che se avanzo, rovino la storia. Allora so che non ho altra scelta se non quella di consegnare il materiale all’editore e ai miei dieci lettori fidati, tra cui ci sono i miei figli. I loro commenti e i loro giudizi sono sempre molto rigorosi e per me importantissimi. Mentre loro leggono per me è come stare sotto esame.
Mentre conversiamo lo scrittore si alza più volte, per mostrarmi una foto che documenta l’argomento di cui stiamo parlando, oppure per prendere l’edizione italiana di alcuni suoi vecchi libri e leggerne dei passi. A ogni digressione mi mostra con partecipazione qualche pezzo della sua vita. Ascoltarlo non ha prezzo. In una foto c’è un bimbo davanti a una grande libreria, nella stessa posa del bambino che campeggia sulla copertina di Io confesso. Gli domando spiegazioni.
È il mio nipotino. L’idea della copertina è stata di mia moglie. Mi piaceva questa immagine del bambino che cerca di prendere un libro troppo alto per lui. L’editore catalano ha anche promosso un’iniziativa tra i lettori e ha raccolto immagini che imitavano la copertina.
Il titolo è suo?
No, il titolo l’ha scelto il mio l’editore catalano. Io, in realtà volevo chiamare il libro Confiteor ma mi è stato risposto che era una pazzia. Così è diventato Io confesso.
La stesura dei suoi romanzi richiede sempre molto tempo e un grande lavoro di documentazione. Per Le voci del fiume sono occorsi sette anni, otto per Io confesso. Come si sente quando consegna il romanzo per la pubblicazione?
Svengo. No, non è un modo di dire, perdo letteralmente i sensi. Il medico dice che è come un lutto, perché un mondo nel quale ho vissuto per anni muore e la mente per difendersi dalla sensazione di vuoto che provo mi fa svenire. Soltanto con Io Confesso non è accaduto perché sono riuscito a prevenire il fenomeno con una cura omeopatica.
Quando scrive come organizza le sue giornate?
Scrivo nel mio studio dalle nove e mezza del mattino alle tredici e poi dalle 15 alle 16, in teoria. In pratica non smetto quasi mai prima delle otto di sera, ma poi mi rimane poco tempo per leggere. La lettura, con la musica, sono le mie vere grandi passioni. La scrittura viene dopo.
Eppure scrivere le riesce molto bene, visti i risultati. Quando ha capito che sarebbe diventato uno scrittore?
Io faccio lo scrittore perché sono un lettore. Sin da ragazzino divoravo libri in modo compulsivo e quando mi capitava un romanzo che mi dispiaceva finire, lo continuavo a modo mio. Era una specie di ribellione del lettore che non accettava che la storia terminasse. Mi impegnavo a inventare un seguito seguendo lo stile e il linguaggio dell’autore originale. Poi mi sono messo alla prova scrivendo racconti e sono riuscito a farli pubblicare. Quindi è venuto il primo romanzo (Galceran, l’heroi de la guerranegra nel 1978, ndr).
In Io Confesso la malvagità umana, che si perpetua in ogni epoca storica attraverso le più svariate forme di persecuzione, dalla Santa inquisizione al nazismo, è un tema centrale. Si reputa una persona pessimista?
No, non credo di essere un pessimista. Questo momento storico per noi catalani è positivo, proprio oggi in Parlamento si approva la dichiarazione di sovranità della Catalogna, un passo importante e ne sono contento. Tuttavia penso che la vita non sia una favola e che l’uso della forza sia un elemento presente in ogni relazione umana, anche in quella di coppia e in qualsiasi epoca. Questa consapevolezza della crudeltà della nostra specie è presente in tutti i miei romanzi ma non è un’ossessione. Semplicemente la narrativa mi aiuta a capire.
E di cose da spiegare e da capire ce ne sarebbero ancora molte, ma il tempo stringe e non voglio approfittare della gentilezza del mio ospite. Cabré, prima di congedarmi, mi invita a visitare il suo studio al piano superiore, una stanza tappezzata di libri, divisi per argomento. Mi dice che aveva preparato per me le edizioni italiane dei suoi romanzi e me le dedica una per una. Gli chiedo di scattare qualche foto e si presta volentieri. Purtroppo è solo in casa e nessuno può ritrarci insieme. Gli spiego che ci tengo particolarmente perché ho il vezzo di “collezionare” immagini con gli scrittori, ma dato che non c’è modo di trovare un appoggio per un autoscatto, ci fotografiamo tenendo la fotocamera in mano rivolta verso di noi. Ridiamo per il pessimo risultato, ma per me è meglio di niente.Se ti è piaciuto questo post, non perderti i prossimi. Clicca qui e iscriviti subito per ricevere tutti gli aggiornamenti