Eppure, nel successivo Countdown to Ecstasy, Fagen continua ad essere accompagnato dal tizio di cui non voglio fare il nome poiché merita il misconoscimento. Ad ogni modo l’album conferma il successo precedente. E chi doveva accorgersene se ne è già accorto. Così cominciano quelle partecipazioni autorevoli che caratterizzeranno tutta la discografia dei Dan.
In questo album partecipano tra gli altri: il grande bassista jazz Ray Brown; Rick Derringer alla chitarra ed Ernie Watts, già ben noto batterista jazz. L’apertura dell’album con l’esplosivo blues meditativo-ironico-orientale, Bodhisattva (link), è spiazzante! Sense of humor, cinismo e cultura (sia in campo letterario che musicale) convivono tra le infinite citazioni di tutti i pezzi dell’album: Your Gold Teeth, The Boston Rag o la bellissima My Old School (link), con inserti di chitarra efficaci ed innovativi. Gli Steely Dan saranno sempre considerati seminali, almeno tra coloro che fanno musica.
Tutto questo fa da preambolo all’uscita di Pretzel Logic nel ’74. Un album straordinariamente attuale, la band si discosta ancor di più dagli esordi inclini all’acusticheggiare, per inoltrarsi verso un easy-jazz affatto da classifica. Lo rendon chiaro sin dal intro di piano in Rikki Don’t Lose That Number (link), il cui riff è direttamente prelevato da Song For My Father (link) di Horace Silver (grande pianista hard bop). Il pezzo poi prosegue per strade sue, ed è uno dei classici più famosi in assoluto dei Dan, con un bellissimo seppur breve assolo di chitarra.
Ancora jazz, con il beffardo riarrangiamento di East St. Louis Toodle-Oo (link) dal periodo Jungle di Duke Ellington (link) (la chitarra con il wha-wha simula la tromba con wha del mitico Bubber Miley). E poi con Parker’s Band (link) il riferimento è chiaramente al gruppo di Charlie Parker ed al suo be-bop.
Ma l’album contiene anche dei pezzi da classifica. Ad esempio la straordinaria Any Major Dude Will Tell You (link) (tra i brani più belli della band): il testo è come sempre letterario, oscuro ed interpretabile (tipo i discorsi di un vescovo, solo che i Dan fanno ridere…beh, anche il vescovo talvolta, in effetti!). Lungo il corso delle parole viene fuori il termine “Squonk”, un essere fantastico che se catturato si mette a piangere sino a sciogliersi, almeno stando al racconto di William T. Cox da cui anche i Genesis (link) (ancora da poco orfani di Peter Gabriel) trassero un loro bellissimo pezzo nel ’75. Tuttavia gli Steely Dan ripresero il termine, per il loro pezzo, dal successivo Manuale di Zoologia Fantastica (’57) dell’omerico Jorge Louis Borges (uno dei più grandi letterati mai esisti, a mio modesto parere). Parecchie sono le state le cover di questo pezzo: tra le notevoli quella dei Wilco (link).
Altro brano importante è la title-track (link), gran bel blues jazzy-oriented, con un hammond così pieno di cinismo da riempirti il petto. Gli Steely Dan non sono una band da buoni sentimenti. C’era bisogno d’aggiungerlo?
Ma andiamo avanti, l’anno dopo (1975) arriva Katy Lied, ultimo degli album ancora legati al primo periodo. Si va sempre più verso un pop jazzato, ma restano comunque dei richiami rock, come nell’intrigante pessimistico singolo Black Friday (link) (molto attuale, direi, per i temi economici trattati). Altri brani da menzionare e ascoltare assolutamente: Bad Sneekers, Rose Darling (link), Doctor Wu (link). Mentre pezzi come Any World, Everyone’s Gone to The Movies o la gershweeniana Throw Back The Little Ones ricordano il passato più recente. Segnalo la presenza in questo album del grande batterista Jeff Porcaro (Toto).
1976 e nuovo album: The Royal Scam (con una copertina che in principio era stata disegnata per un disco di Van Morrison). Non tra i migliori lavori degli Steely Dan. Eppure alcuni pezzi entrano a far parte della storia del rock: Kid Charlemagne (link), dedicata all’Orso Owsley Stanley, figura chiave nell’area della contro-cultura di San Francisco e membro della crew dei Grateful Dead. Mago-alchimista, personaggione e profeta dell’LSD, morto nel 2011 per un incidente d’auto. Per tornare a discorsi più tecnici, l’assolo di questo brano (ad opera del troppo sottovalutato Larry Carlton, già presente nell’album precedente) è considerato tra i migliori del rock nelle solite classifiche opinabilissime di Rolling Stone.
Una gran chitarra è presente anche nella elegante Don’t Take Me Alive (link). Ancora da ascoltare la classica pop-jazz Sign in Stranger (link) e soprattutto Green Earring (link), strambo pezzo sincopato, dalle sonorità funk-jazz, tra i miei brani preferiti. Dall’apertura ariosa del basso – che comincia poi letteralmente a pompare da 2.05 minuti – è facile rendersi conto di quanto il pezzo sia sottovalutato pur essendo stato estremamente influente per la funky-disco music che avremmo ascoltato qualche anno dopo.
Nel ’77 si completa la maturità degli Steely Dan è esce uno di quegli album che – come si suol dire – bisogna portare sull’isola deserta o salvare dal diluvio universale e cose del genere… Aja, così si intitola. Comincio elencando alcune tra le guest star di questo album: Larry Carlton, Steve Gadd (tecnicissimo batterista fusion in gran voga a quei tempi), Steve Khan (noto chitarrista funk e fusion), Michael McDonald (cantante dei Doobie Brothers), un giovanissimo Lee Ritenour, udite udite Joe Sample (direttamente dai Crusaders) e infine quel vero dio del sax che è Wayne Shorter. Brano d’apertura è Black Cow (link) (il nome di un cocktail, ma il pezzo non si capisce bene di cosa tratti, come al solito). La canzone che avrei sempre voluto scrivere. Semplicemente geniale, tutto basato sull’accordo di Mu maggiore. No, non Mi, ma Mu! L’hanno inventato loro, del resto (quante band conoscete che inventano un tipo di accordo?). Strepitoso ed ironico, è la versione colta di ciò che appunto si ascoltava in radio in quel periodo. Il fender rhodes sopra quel giro di basso apparentemente semplicissimo, e la sezione fiati a far da contrappunto, non può che rimandare alla Disco-era.
L’eleganza del secondo brano è stupefacente: Aja (link), title-track e singolo dell’album. Il testo è ispirato dalla cultura Asiatica, ma probabilmente – pur essendo Fagen un seguace di certe idee orientali – il tutto è trattato comunque con forte sarcasmo. Il punto è che raggiunger elevati gradi di conoscenza o serenità d’animo (il Nirvana ad esempio) non è così semplice come un occidentale può immaginare e non basta credersi vagamente interessato allo studio della sapienza orientale, magari dopo una sbirciata su qualche testo in rete. Tecnicamente parlando, il brano – ben otto minuti – è un capolavoro della musica moderna, chiosato dall’inspiratissimo solo di sax di un Wayne Shorter ancora una volta in stato di grazia (minuto 4.43). Alla batteria c’è Gadd, e si sente soprattutto nel finale.
Proseguendo nell’ascolto arriviamo a Deacon Blues (link). Tutt’altro che un semplicissimo blues nella struttura musicale, lo è tuttavia nel sua andare malinconico. Il motivo del titolo è dato dal nome di una squadra (Deamon Deacons) di football dell’Alabama che dal ’72 al ’75 combinò ben poco, contro i grossi risultati raccolti da altra squadra dello stesso Stato (Crimson Tide). Un po’ come se parlassimo di Torino e Juventus, probabilmente. Per cui, Fagen, un po’ sconfortato, dice: They got a name for the winners in the world. I want a name when I lose. They call Alabama the Crimson Tide. Call me Deacon Blues.
Dopo aver sentito Donald Fagen che si proclama perdente, si passa alla più movimentata Peg (link). Ennesimo funky jazz, ma questa è tra le hits più note della band. Assolo stellare ancora ad opera del solito Carlton. Il testo parla di Peg, una ragazzina che sogna di diventare attrice, cui viene promessa una grande occasione. Bisogna che aggiunga che tipo di attrice diventerà Peg?
Home at Last (link), brano successivo, invece va a scomodare direttamente Omero, accompagnandolo con un piano alla Gershween, nella miglior tradizione broadwayana. In particolare Fagen si concentra su quel piccolo contrattempo di Ulisse con le sirene, nelle nostre zone costiere. Il tutto è parecchio divertente se associato alle sonorità anche vagamente a la Stevie Wonder. Riuscirà Odisseo a tornare a casa, in fine?
Il funk è ormai un denominatore comune a quasi tutti i brani dei Dan, ciò è percepibile anche nella schizzatissima e jazzy I Got The News. Stessa cosa è valida per la ultra-nota Josie (link), che chiude l’album. Che dire? È l’album perfetto degli Steely Dan. I suoni sono assolutamente cesellati, incastonati in un contesto magmatico eppur ben stabile.
To be Continued…
Babar Da Celestropoli